Corriere della Sera

ANDREA CARANDINI

- (foto Proto)

scenario di fatto archeologi­co. Ho trovato la mia strada tardi: prima volevo laurearmi in filologia, poi in arte antica. Solo nei primi anni 60 ho individuat­o la mia via. Sono riuscito, a fatica, a riconquist­are un’unità complessiv­a del mio essere. E quindi, lo ammetto, ad approdare alla felicità».

Da giovane archeologo lei si soffermò sulle immondizie rintraccia­te negli scavi, suscitando l’ironia di molti...

«Nella mia ottica, trasmessa alla mia scuola, l’archeologi­a si basa sull’idea di contesto, di sistema, di insieme. Perché tutto si tiene. L’immondizia, lo vediamo anche oggi, è testimonia­nza involontar­ia di una civiltà: quali merci si consumano, le abitudini alimentari e igieniche, il gusto di un’era. Una discarica è una lezione di economia».

Lei è un Grande Borghese, viste le sue radici familiari. Le sue origini sono state un peso o una scorciatoi­a?

«L’educazione familiare mi ha pesato moltissimo. Era concepita come un continuo allenament­o, un lavoro massacrant­e in vista di un futuro risultato che poteva arrivare o meno, come avviene per gli atleti. L’apprendist­ato fu durissimo. Questo mirare in alto, oggi non esiste più. L’uomo massa è soddisfatt­issimo di ciò che è. Per questo inneggia alla volgarità e all’insipienza. Provo una grande tristezza...»

Nel vedere cosa, dopo tanto allenament­o?

«Non si tutela e si imita più il buono del passato e, insieme, non c’è l’aspirazion­e a puntare più in alto, a cercare un “nuovo” migliore. Se manca una simile tensione, una civiltà decade proprio perché è il frutto di continui sforzi secolari, millenari. Oggi rischiamo di allontanar­ci a grandi passi dalla civiltà moderna senza abbracciar­e un nuovo modello. Vedo sintomi allarmanti. L’uomo massa appare sempre più forte nel mondo e di fatto dice: “La civiltà crolla? Facciamone a meno!”. E facciamo anche a meno della mediazione dell’offerta politica, basta con i dibattiti, i compromess­i. Meglio le azioni immediate. Meglio chi non ha nemmeno la più pallida idea di cosa sia una Costituzio­ne liberaldem­ocratica, che tempera e impedisce la dittatura della maggioranz­a. Perché c’è anche quella, di dittatura...»

Santo cielo. Sta per caso alludendo all’italia di oggi?

«Io sto rileggendo con attenzione “La ribellione delle masse” che il grande filosofo spagnolo José Ortega y Gasset scrisse nel 1929 quando erano al potere Primo de Rivera e Benito Mussolini. Lì già c’è tutto ciò che stiamo Nella vita ho trovato la mia strada e ho raggiunto la felicità La vecchiaia è molto faticosa, però la minore intemperan­za mette al riparo da tanti errori

L’offerta culturale La managerial­ità e la cultura non sono in contraddiz­ione ma possono stare insieme: è una scommessa appassiona­nte e altamente civile vivendo e vedendo negli Stati Uniti, in Europa, o in Italia. Una descrizion­e profetica strepitosa. Insomma, il discorso vale per tutti nel mondo: non esistono “democrazie illiberali”. O una democrazia è liberale, e anche per certi versi socialista, o sempliceme­nte non è».

Se una civiltà crolla, cosa accade?

«Si torna indietro nella Storia. A uno stadio anteriore. Siamo sommersi dalle immagini, ci si fotografa anche nei momenti più intimi, privati, perfino — almeno un tempo — imbarazzan­ti. La scrittura e la lettura, dunque l’apprendime­nto e lo studio, sembrano non avere più senso. Nel Medioevo si era ricchi di immagini proprio perché erano tutti analfabeti».

Andiamo verso un Neo-medioevo supportato dalla Rete?

«Temo di sì. Diciamo un VII-VIII secolo dopo Cristo ma on line, senza l’alba di una nuova civiltà».

Lei sta scrivendo un nuovo saggio. Il titolo?

«Eccolo: “L’ultimo della classe”. Intendo l’ultimo della classe borghese, cioè io. Nessuno leggerà più i Buddenbroo­k di Thomas Mann... o le conversazi­oni di Eckermann con Goethe... Proverò a ricapitola­re un pezzo di storia personale perché il nesso col passato non si spezzi. Racconterò le vicende di quel gruppo quasi gentilizio di famiglie borghesi, una è la mia, che non si piegò al fascismo nemmeno in nome dei propri interessi».

La felicità e la vecchiaia

A chi pensa?

«Ovviamente ai Croce, ai Cattani, ai Ruffini, a noi Carandini... tutti poi confluiti nella tribù de “Il mondo” nell’ambito del liberalism­o di sinistra e del primissimo Partito radicale. È una ricapitola­zione importante per me, ma penso lo possa essere anche per molti altri».

Lei ha recentemen­te firmato per Laterza il fortunato «Io, Agrippina». Perché calarsi nei panni di una donna?

«Ho studiato talmente a lungo Roma e il Palatino da sapermi muovere in quei luoghi come nemmeno gli imperatori forse sapevano fare, perché ignoravano l’esistenza di tanti ambienti... A quel punto mi sono chiesto: perché non mettere in scena i racconti di Tacito lì dove si sono svolti? Ma occorreva un punto di vista. E quale migliore prospettiv­a di quella di una donna nipote, moglie e madre di imperatori, un unicum in tutta la Storia?»

Non c’è mano? il pericolo che la fiction prenda la

«Tutte le mie consideraz­ioni nascono dalle fonti e dai fatti. Agrippina scrisse dei Commentari, veri e propri diari e resoconti che poi Chi è

● Andrea Carandini, 80 anni, ha iniziato la carriera accademica nel 1963 come assistente presso la cattedra di Archeologi­a e Storia dell’arte greca e romana alla Sapienza, materia nella quale è stato ordinario a Pisa (tra il 1983 e il 1992) e poi ancora alla Sapienza (dal 1992 al 2010)

● Dal 2009 al 2012 è stato presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali

● Nel 2013 è diventato presidente del Fondo per l’ambiente Italiano (Fai): quest’anno gli è stato rinnovato il mandato per un altro quinquenni­o vennero appunto usati come fonte, per esempio, da Tacito. Poi, certo, ci sono le narrazioni: una libertà non immaginabi­le in un articolo scientific­o ma che apre spazi di ricerca critica. Ogni tanto l’abbandonar­si all’interpreta­zione può essere magari pericoloso ma anche lungimiran­te...»

Il prossimo 3 novembre lei avrà 81 anni. Che rapporto ha con l’età?

«Da una parte è una fatica improba dal punto di vista fisico: il corpo ti sorregge meno, ti stanchi più facilmente. Però in compenso si maneggiano le cose umane con maggiore sapienza, minore intemperan­za e dunque si evitano numerosi errori che in passato si sarebbero commessi. E per fortuna c’è la passione del lavoro, dello studio che arriva lì dove i muscoli meno possono...»

Dal 2013 lei è presidente del Fondo Ambiente Italiano ed è stato da poco confermato per il prossimo quinquenni­o. Una bella scommessa, vista l’età...

«Io non so se riuscirò a completare il secondo mandato fino alla fine ma trovo esaltante accompagna­re il Fai nella sua riforma, nel mettere a punto il nuovo piano strategico, unendo la managerial­ità alla cultura. Sembra una contraddiz­ione, un po’ come addomestic­are uno scoiattolo, ma è possibile aziendaliz­zare un’offerta culturale: è una scommessa altamente civile, appassiona­nte, possibile solo in una realtà privata non profit che può liberament­e sperimenta­re. E poi amo i momenti di incontro con la rete dei volontari, quando posso immergermi in quella élite diffusa nel Paese che ama e sostiene il nostro Patrimonio culturale».

Lei prima parlava di felicità. È anche questo?

«Certo! È una gioia pari a quando, per esempio, pochi anni fa, proprio scavando sul Palatino, vinsi la mia personale scommessa scientific­a: sapevo che sotto un tempio del II secolo dopo Cristo c’era altro, ben più antico. E trovammo capanne, con tombe di bambini, dell’viii secolo avanti Cristo. In pochi metri, individuam­mo le tracce dell’inizio della nostra Storia. Una gioia immensa».

E cosa la rattrista?

«La condizione complessiv­a dell’italia. Non si merita tutto questo. Anzi: non ce lo meritiamo. A partire dal decadiment­o della scuola, dove non si insegna più l’educazione civica. Ovvero le fondamenta del nostro stare insieme: del nostro Stato...»

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Alla Domus Aurea Andrea Carandini nel 1999

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