Dolce e Gabbana in 150 abiti (e amici)
Dagli inizi — nel 1984 — a oggi. Il duo creativo ha portato in passerella tutta la propria storia, i propri affetti e i propri legami. Ne è uscito un racconto corale fatto di stile e artigianalità. «Amiamo il nostro lavoro. Perché non trasmetterlo a tutti
Un’irresistibile voglia di raccontare tutto, sin dall’inizio. Perché? Perché nessuno lo fa più, non così. Con passione e dedizione. Senza curarsi di limiti. Lasciando che la creatività faccia il suo corso. Possibile là dove si lavora nel proprio, senza compromessi. Dolce e Gabbana, le origini, dal 1984. Il dna, così come è scritto, a lettere cubitali, sulla passerella, con una grande impronta digitale a sigillare il concetto. Ecco Carla (Bruni) e Naomi (Campbell), e poi Eva (Herzigova) e Monica (Bellucci). La Rossellini family (Isabella con figli e nipoti) e la Dallas family (Cameron con fratelli). Lady Kitty Spencer. L’influencer Mariano Di Vaio con la moglie. Giovani e meno giovani. Alte e basse. Formose e asciutte. Bionde e brune. Comincia da qui il racconto che è un rilettura di 35 anni di moda. Più di 150 uscite che scorrono veloci portando con sé ognuna un po’ di quei codici: amore, fedeltà, religione, peccato, gioia, sensualità, Sicilia, nero, pizzo, uncinetto, ex voto, carretti siciliani.
«Non abbiamo mai voluto parlare a questa o quella classe sociale, ma al popolo delle donne — raccontano —, per questo abbiamo scelto un casting cosi che a dir la verità è cresciuto con il passa parola». E le personalità in crescendo stanno in passerella, come il fatto a mano sta sugli abiti. Questo il senso di questo grande sforzo creativo, unico anche per loro, per intensità e produzione: «Ma non saremmo capaci di lavorare diversamente. D’altronde è tanto e tale l’amore per il nostro lavoro, perché non trasmetterlo così a tutti? Che senso ha essere avari con una così grande passione?».
«Nell’era digitale che appiattisce tutto, ci sembrava giusto sottolineare questo — spiegano — cioè che siamo fatti di volti, mente e cuore». Il che significa, in abiti, il fatto mano. Non c’è capo che non abbia quel tocco. Ecco l’organza intarsiata con il pizzo e il tulle, i tailleur foderati di chiffon e quelli mini di broccato, il tubino che è tutto un collage di altarini e quello nel nuovo velo con lamé, l’abito di raffia e quello croquet pop, il completo da pin up con i cuori, il giubbotto tempestato di piccole crisi e la veste midi di broccato floccato con tecniche digitali. Gran finale nell’abito da ballo in tessuto carta. E poi la meravigliosa invasione di tutto questo mondo, anzi dei mondi. Con le arie di Luciano Pavarotti e quel senso di italianità di cui questa moda ha bisogno.
Wow, Francesco Risso, che collezione Marni! Sarà frutto di una fantasia bislacca e stravagante ma gran bel lavoro di coerenza e nuova eleganza di quelli che se ne vedono pochi ultimamente. Lui lo chiama il suo «Olimpo geneticamente modificato»: la storia del dottor Frankenstein che si mette in testa di replicare la Venere di Milo (non sono parole in libertà ma i personaggi che Risso teneva nel suo cassetto di giocattoli e pupazzi in studio!) cercando di mettere un po’ di tutte le donne di oggi. Così lo stilista matto addiziona tessuti e sottrae forme arrivando all’alchimia perfetta di una femminilità originale, sensuale e gioiosa, fatta di abiti tagliati e ripresi e non finiti, di gonnellone patchwork, spolverini con pennellate impazzite, bluse drappeggiate, ciabattine maliziose, stampe metamorfiche.