Nel labirinto di Pasternak
Pierluigi Battista indaga sull’autore: i tradimenti e un amore che sa di riscatto
Nei meandri della vita di Boris Pasternak. Il senso di colpa del dottor Živago, il nuovo libro di Pierluigi Battista, prova a svelare il labirinto di un’esistenza tra amori, tradimenti, spie, dittatori. In una Mosca imprigionata dal sospetto e dai privilegi.
C’era un gioco che si faceva da ragazzi, bisognava essere in gruppo e avere in mente una storia: due protagonisti, qualche comparsa, il luogo dove avvengono i fatti, i dialoghi, un epilogo. Si scriveva una striscia di testo su un foglio, che poi si piegava accuratamente per proteggere l’embargo e si passava a chi avevi accanto, in senso orario. Alla fine del giro si poteva distendere la carta — nel frattempo era diventata una specie di ventaglio richiuso lungo un’unica stecca — e si rileggeva. Dalla storia d’origine di ciascuno scaturivano tante versioni, incrociate e sovrapposte, quanti erano i partecipanti. Nello stupore generale, le vicende umane avevano preso mille strade, ognuna legittima e (in)credibile. È l’effetto che fa il sorprendente libricino scritto da Pierluigi Battista: Il senso di colpa del dottor Živago, dove in meno di cento pagine si distende d’un fiato un labirinto di disvelamenti di uomini e donne, poeti ed editori, spie e dittatori, telefonate, carteggi segreti, letteratura e verità.
Chi è lui. Boris Pasternak, autore di poesie e di un romanzo, Il dottor Živago, premiato nel 1958 con un Nobel che non andò a ritirare per «ragioni di Stato», figlio di un pittore e di una pianista, artista promettente già agli esordi e affascinante sin dai primi ritratti dipinti dal padre, sposato due volte (con la prima moglie ebbe un figlio, Evghenij; la seconda, Zinaida, la strappò al miglior amico di allora) e per 15 anni — dai suoi 56 alla fine — amante fedele dell’unica vera musa della sua vita.
Chi è lei. Olga Ivinskaja, redattrice nella rivista «Novy Mir» dove trentaquattrenne conobbe Boris e ne ricambiò una passione senza preliminari, vedova due volte (il primo marito suicida), due figli, due aborti con Pasternak, due volte imprigionata nei gulag di Stalin che perseguitò lei e risparmiò lui («lasciatelo in pace tra le nuvole», sarebbe stata la linea del Cremlino).
Dove siamo. Ci troviamo nella Mosca degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta fino — per chi sopravvisse — alla caduta del Muro, quando Evghenij andò finalmente a prendersi il Nobel di famiglia. Mosca e i campi per i sospettati, Mosca e le dacie dei privilegiati, Mosca e le fughe a Parigi.
Chi sono «gli altri». Che Battista sceglie di raccontare attorno a Boris e Olga, lasciando intravedere i destini dell’intellighenzia russa dell’epoca. Una sequenza di vessazioni, tragedie e vertici lirici che dimostrano quanto Mandel’štam aveva intuito: il paradosso di un regime capace di uccidere «per motivi poetici», dimostrandosi l’unico sistema politico intimorito a morte dal potere della poesia. Marina Cvetaeva, dal 1922 al 1935 amore epistolare di Boris, interrotto a causa di quello che per la scrittrice era «il complesso-dolce» Pasternak. Un traditore, sempre accomodante, rispetto all’intransigenza che avrebbe portato lei prima a rinunciare all’esilio francese e poi nel 1941 a togliersi la vita con ancora indosso il grembiule da donna delle pulizie, impiccata a un chiodo nella via di Elabuga, nel Tatarstan, intitolata all’uomo che aveva elaborato le direttive della dittatura culturale stalinista: Andrej Ždanov. «Cerco con gli occhi un gancio e non ne trovo». Anna Achmatova, due mariti finiti agli arresti, il figlio Lev condannato a 18 anni di lavori forzati, la scelta di cantare comunque l’eroismo di Leningrado contro i nazisti e il ritorno — dopo «la grande guerra patriottica» secondo Stalin — nell’isolamento decretato dalla dittatura per la quale lei era «metà suora metà sgualdrina». Pasternak non partecipò al linciaggio e cercò sempre di passarle del denaro ma da lontano la osservò sprofondare in un disperato delirio — «una spossatezza crudele travolge il giorno e la notte in un cerchio di sangue» — mentre chiuso nella dacia di Peredelkino vedeva salire il genio del suo Živago.
E poi Osip Madel’štam, braccato da quello che in un epigramma declamato e mai scritto aveva definito «il montanaro del Cremlino» con dita «grasse come larve» e «baffi da scarafaggio». Fu Mandel’štam la prova più lacerante per la tempra dell’intellettuale Boris Pasternak. Tradito, arrestato due volte, il poeta e saggista morì durante il trasferimento in Siberia nel 1938. La sua grandezza fu salvata da Nadežda, capace di mandare a memoria tutti i versi del marito per vanificare i roghi di Stato. Nel solco tra i due artisti — uno naufrago predestinato, l’altro abile navigatore — si decide una parte del giudizio sul senso di colpa di Pasternak-živago. Battista risale la corrente, a volte tenera, del loro rapporto fino al gorgo della famosa telefonata giunta dal Cremlino, una notte del 1934. Una telefonata che vide «il compagno Stalin» esercitare feroce la sua doppiezza per stanare un interlocutore colto volutamente in contropiede. «Di’ un po’, cosa si dice nei vostri circoli letterari riguardo all’arresto di Mandel’tam?». Pasternak rispose incerto e confuso, dissimulando, tergiversando. Finì umiliato. «Se a un mio amico fosse capitata una disgrazia, mi sarei fatto in quattro per salvarlo», lo strattonò l’uomo all’origine di quella stessa «disgrazia». «Ma perché parliamo sempre di Mandel’štam?». «E di cosa vorresti parlare con me?». «Della vita e della morte», azzardò lo scrittore. E una frazione di secondo dopo sentì la comunicazione interrompersi.
Con Mandel’štam alle spalle e sulle spalle portandosi per sempre il suo ricordo, entriamo nella zona rossa: andiamo al
La repressione sovietica
La grande passione di Boris fu Olga, che venne arrestata due volte. A lui il Cremlino concesse di restare «in pace tra le nuvole»
cuore delle vite e delle ambiguità di Pasternak. Perché il senso di colpa del dottor Živago raggiunge il climax nella relazione di Boris-yuri con Olga-lara, l’unica in grado di indicargli la strada di un’espiazione letteraria che lo avrebbe trattenuto da un destino amletico o achmatoviano giù nel baratro dell’ossessione. Pasternak pagò le sue oscillazioni esistenziali con un paio di infarti, tuttavia Olga lo riscosse, accompagnò, a tratti guidò e spinse al compimento del capolavoro. «La porta della verità — scrive Battista — si era spalancata e Boris Pasternak sentiva ora la missione di rovesciare il comportamento seguito per decenni. Finalmente il vero come redenzione dell’inautentico, del falso, del compromissorio, della mancanza di coraggio». Rischiare in grande diventò una sfida possibile, una sfida innanzitutto a sé stesso. «Fin d’ora siete invitati alla mia fucilazione», dichiarò firmando il contratto per la pubblicazione all’estero del manoscritto, un contratto destinato a Giangiacomo Feltrinelli, che di tutti i coprotagonisti raccolti in quel ventaglio di nomi, frasi, gesti si rivela forse il più coraggioso e tenace — ma questa è un’altra storia nella Storia.
Nel 1960, poco più di due anni dopo il successo mondiale del romanzo, l’autore morì nella sua dacia. Non ammessa in casa, Olga lo vegliava dalla veranda, consapevole che avrebbe presto pagato per tutti e due. Venne infatti rispedita ai lavori forzati, questa volta con la figlia Irina, e fino al crollo dell’urss non poté rivedersi nel magnifico volto cinematografico di Julie Christie che dal 1965 l’aveva trasformata in un mito del Novecento. Lei che durante la prima detenzione, nel 1949 a Potma, all’inizio della grande avventura, si disperava perché non possedeva neppure uno specchio rotto. «Olga aveva l’ossessione della cura di sé e del suo aspetto — nota Pierluigi Battista che sembra aver compreso ogni sfumatura — non voleva che al ritorno da quell’inferno di ghiaccio Boris la vedesse vecchia, decrepita, brutta. E potesse disamorarsi di lei».
Nella Postilla, l’autore si chiede se sia tutto vero quanto ha raccontato. E per rispondere descrive un lunghissimo «percorso tra i libri che mi hanno accompagnato e suggestionato nel corso degli anni». Quel percorso riunisce memorie di protagonisti diretti, figlie e pronipoti, discendenti lontani. E poi saggi, documenti, lettere. L’irresolutezza congenita, la consapevolezza del danno che questa può causare alle persone amate, il desiderio di affrontare comunque la vita che non è un gioco, «non è come attraversare un campo»: tutto questo affiora e si accavalla nella narrazione di Battista, dà forza e senso a quella «personale ma non arbitraria interpretazione» di che cosa sia stato il senso di colpa di Boris Pasternak. E di quali siano state le conseguenze — dolorose, senza mai rimpianti — dell’amore di Olga.
«Era già tardi quando sentì suonare il campanello del destino. Aprì la porta, stupita di vedersi di fronte proprio Boris, affannato, visibilmente emozionato: “Cara Olga, oggi però sotto la statua di Puškin non ti ho detto la seconda cosa, quella più importante”. “Dimmela subito Boris, in effetti ero ansiosa di sapere quale fosse”. “Eccola: Olga, io ti amo”».
Tormento
La prova più lacerante fu il legame con Mandel’štam: Stalin lo sapeva e gli telefonò una notte del 1934 per provocarlo