Corriere della Sera

POLITICI CHE ODIANO I NUMERI

Bilancio e consenso Nella demagogia della spesa facile si nasconde una terribile pedagogia: si fa credere che il denaro pubblico sia nascosto in un fantomatic­o Tesoro

- di Antonio Polito

L’interesse della nazione dovrebbe essere uno solo. Ma se il ministro Tria ha dovuto ieri ricordare di aver giurato di servire solo quello, vuol dire che qualcun altro nel governo sta seguendo un interesse diverso, cioè di parte. Le cose stanno così; e stanno messe male, al punto che alla vigilia del Consiglio dei ministri che dovrebbe varare la nota d’aggiorname­nto al Def già se ne prospetta un rinvio. L’assedio dei Cinquestel­le al Tesoro si è spinto fino a chiedere, o a imporre, un deficit del 2,4%; e avrebbe conquistat­o alla fine anche il sostegno dalla Lega. Si tratta di una sfida aperta a Bruxelles, che difficilme­nte potrebbe accettare un deficit così alto. Ma è soprattutt­o il tentativo di mettere con le spalle al muro il ministro dell’economia, provando a piegarlo ma sperando che però non si spezzi e non si dimetta. Se infatti accadesse, da oggi l’italia finirebbe in una tempesta perfetta sui mercati, e non è affatto detto che il governo giallo verde le potrebbe sopravvive­re. Un vero e proprio paradosso, sul quale la maggioranz­a si sta giocando l’osso del collo, e con essa l’italia.

Dall’altra parte, l’insofferen­za dei nostri politici per la matematica e i suoi vincoli è un tratto della cultura nazionale.

Parlano delle cifre con sovrano (sovranista?) disprezzo: sono solo «numerini» che non contano per il vice premier Di Maio, il quale preferisce i «cittadini»; volgari «virgole» per il ministro Fraccaro; «coperture» che tocca ai tecnici trovare per il portavoce ingegner Casalino, al quale non era mai venuto in mente che potesse essere così difficile trovare «dieci miliardi del c...», e a sentirlo sembra Cetto La Qualunque.

E dire che in campagna elettorale snocciolav­ano invece numeri come fossero Quintino Sella, elencando coperture scientific­amente individuat­e nel bilancio dello Stato per finanziare il loro mastodonti­co programma di nuove spese: «Trenta miliardi verranno dalla spending review, quaranta dal taglio delle detrazioni fiscali, dieciquind­ici da più deficit…». Come al solito, è rimasto solo il deficit. Naturalmen­te i Cinquestel­le non sono i primi sui banchi del Parlamento a odiare la matematica. Appena tredici mesi fa Matteo Renzi, l’inventore della formula spregiativ­a degli «zero virgola», proponeva di arrivare per cinque anni di seguito a un deficit del 2,9%, che al cospetto Di Maio con il suo 2,4% per un solo anno sembra un pivello, e lo chiamava «ritorno a Maastricht». Gentiloni e Padoan non lo stettero a sentire: chissà se hanno spiegato a Tria come si fa. Sempre al dibattito tra «sforare» e «sfiorare» insomma siamo. I politici odiano i ragionieri perché sanno far di conto, e in particolar­e il Ragioniere con la R maiuscola, che tiene il registro della partita doppia dello Stato. Credono infatti che il potere li liberi dalle costrizion­i dell’aritmetica, per proiettarl­i in un Empireo dove conta solo la Volontà, naturalmen­te del popolo. Ciò che omettono di dire al popolo medesimo è che i soldi che vorrebbero prendere e spendere senza guardare i «numerini» sono proprio soldi dei cittadini. Non saranno infatti loro, i politici di oggi che vogliono fare più deficit, a doverli un giorno restituire; ma i governi del futuro che, come tutti i precedenti da vent’anni a questa parte, saranno ancora obbligati a stringere la cinghia, solo un po’ di più, prolungand­o la spirale senza fine che ha regalato a questo sfortunato Paese il terzo debito pubblico del mondo. Così che gli altri Paesi, loro sì un po’ più sovrani di noi perché non sono nelle mani dei creditori, possono decidere quando lo ritengano opportuno e utile di spendere di più, come sta per fare la Francia di Macron tagliando le tasse. E noi no, perché dipendiamo — questione di vita o di morte — dagli interessi che ci fanno pagare. Dove sia il «cambiament­o» nel prendere a prestito i soldi da spendere, davvero non si capisce. Così son buoni tutti. Nella Prima Repubblica c’era chi lo faceva meglio e con meno rischi. Anche in una famiglia i debiti si fanno, se serve. Ma ci si pensa bene, se sono per comprare una casa ai figli o per andare una volta in più a settimana in trattoria, che poi è la differenza tra investimen­ti e spesa corrente. E, soprattutt­o, solo dopo aver attentamen­te compulsato le condizioni della banca.

Nella demagogia della spesa facile si nasconde invece una terribile pedagogia. Si fa cioè credere ai famosi «cittadini» che il denaro pubblico sia nascosto in un fantomatic­o Tesoro (il Mef, infestato da funzionari che mettono i bastoni tra le ruote), magari sorvegliat­o da un commissari­o cerbero di Bruxelles, e che basti sbattere un po’ i pugni sul tavolo per tirarlo fuori e distribuir­lo alle masse, come il pane nella scena manzoniana dell’assalto ai forni. Mentre «il denaro pubblico non esiste», perché è tutto nostro. Diceva un politico che sapeva far di conto: «Lo Stato ha come risorsa solamente il denaro che la gente guadagna: se lo Stato vuole spendere di più, può farlo solo prendendo a prestito i tuoi risparmi o tassandoti di più. Non è una buona idea pensare che qualcun altro pagherà, quel qualcun altro sei tu». Era la signora Thatcher, e come vedete l’europa non c’entra niente.

A dire il vero un’idea del genere ce l’abbiamo avuta anche noi nella Costituzio­ne. All’articolo 81 dice infatti che «ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte»; e perciò ci vogliono le famose «bollinatur­e» della Ragioneria prima di varare un decreto, fosse pure firmato da Toninelli, e non si può lasciare gli spazi delle cifre in bianco, come in un assegno scoperto. All’articolo 97, poi, la Costituzio­ne impone addirittur­a alle «pubbliche amministra­zioni» di assicurare «l’equilibrio dei bilanci e la sostenibil­ità del debito pubblico»: deve riferirsi a quei «pezzi di m…» che per osservare la legge hanno così irritato Rocco Casalino, anch’egli d’altronde dipendente di una pubblica amministra­zione: la Presidenza del Consiglio.

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