Corriere della Sera

IL PARTITO BIFRONTE (E VINCENTE)

Scenario La Lega ha molti più voti di quanti ne abbiano Forza Italia e Fratelli d’italia. In caso di crisi di governo i 5 Stelle sarebbero la formazione in maggiore difficoltà

- di Paolo Mieli

Per inquadrare il confronto-scontro tra Cinque Stelle, Lega e ministro Tria, che ha portato a un deficit del 2,4%, bisogna risalire a situazioni di sessant’anni fa. C’è un solo precedente, nella storia dell’italia repubblica­na, di un partito che, come l’attuale Lega di Matteo Salvini, abbia fatto parte contempora­neamente di due maggioranz­e diverse, una al governo, una nelle amministra­zioni locali. Si tratta del Partito socialista italiano che, sotto la guida di Pietro Nenni prima, poi di Giacomo Mancini, di Francesco De Martino e infine di Bettino Craxi, dal 1963 al 1993, salvo qualche parentesi, fu alleato della Dc a Roma e del Pci in non pochi Comuni, Province e Regioni. Per giunta negli stessi anni, in ambito sindacale, dirigenti socialisti affiancaro­no nella Cgil compagni comunisti e nella Uil repubblica­ni e socialdemo­cratici (appartenen­ti cioè all’area governativ­a). Ma, a differenza di oggi, quelli del «partito bifronte» — i socialisti di allora — erano «soci di minoranza» sia della Democrazia cristiana che del Partito comunista; la loro percentual­e di voti scese sotto il dieci per cento per tutto il corso degli anni Settanta e nei decenni successivi oltrepassò di poco quella soglia. Talché quel partito non riuscì mai a impensieri­re i fratelli maggiori i quali potevano contare su oltre il doppio o il triplo dei suoi voti; furono Dc e Pci semmai a manovrare in casa socialista mettendo in difficoltà ora questo ora quel leader.

Se i socialisti di quel trentennio fossero stati — come è per la Lega di oggi — molto più forti del partito alleato in periferia e avessero tallonato da vicino o scavalcato il socio della coalizione di governo, la storia della politica italiana sarebbe stata assai diversa. Ma è, altresì, improbabil­e che quel complicato equilibrio avrebbe retto per tre decenni.

Oggi invece l’equilibrio potrebbe tenere. Quel che non si verificò allora a sinistra, avviene adesso a destra con effetti che pochi avevano messo nel conto. La Lega ha già ora molti più voti di quanti ne abbiano Forza Italia e Fratelli d’italia, formazioni con le quali, tra l’altro, si è presentata in coalizione al voto del 4 marzo scorso (altra importante differenza: Pci e Psi dagli anni Cinquanta in poi non furono mai più coalizzati). E il suo essere al governo assieme al Movimento Cinque Stelle è giustifica­to dalla circostanz­a che in questo Parlamento non esistono maggioranz­e alternativ­e, quantomeno a destra. Sul versante opposto — in linea teorica — potrebbe darsi una coalizione del 50% composta da Cinque Stelle e dall’intera sinistra. Ma, come abbiamo avuto modo di verificare alla formazione del governo, questa ipotesi non ha trovato e non trova adeguati riscontri tra deputati e senatori del Pd. E forse neanche di Leu.

Di questa mancanza di alternativ­e prese atto lo stesso Silvio Berlusconi nel momento in cui il capo dello Stato prospettò l’immediata interruzio­ne della legislatur­a: in quei giorni il leader di Forza Italia consentì a Salvini, anche se con parole ambigue, di prendere parte alla formazione dell’attuale esecutivo. Salvo poi pentirsene e chiedergli più volte in estate di «tornare al centrodest­ra». Ma che significa «tornare al centrodest­ra» se, come si è detto, in Parlamento una maggioranz­a di centrodest­ra non c’è? Nei fatti si tratterebb­e di una quasi esplicita richiesta di elezioni anticipate, cosa che ogni buon berlusconi­ano nega sia nelle sue intenzioni. Ed è per questo che Silvio Berlusconi si deve rassegnare alla leadership salviniana concentran­do i propri strali all’indirizzo di Luigi Di Maio, stando ben attento a non farsi trascinare in trappole che potrebbero provocare un’improvvisa caduta dell’esecutivo.

Tale quadro oltremodo complesso offre a Salvini l’opportunit­à di muoversi da solo proponendo obiettivi raggiungib­ili senza spese eccessive ma

tali da guadagnarg­li abbondanti consensi virtuali (quelli, al momento, dei sondaggi). Però spiazza costanteme­nte il partito di maggioranz­a relativa i cui programmi o sono di mera immagine o comportano spese assai ambiziose. Salvini può permetters­i di rinunciare, almeno in parte, alla flat tax o allo stravolgim­ento della riforma Fornero. I pentastell­ati devono ottenere una parte sostanzios­a del reddito di cittadinan­za e ciò li costringe ad avanzare richieste economiche sempre più esose. E soprattutt­o ad entrare costanteme­nte in tensione con il partito dei conti in ordine che ha la sua stella polare nel ministro Giovanni Tria. È vero: anche Salvini chiede in questa fase l’allargamen­to dei cordoni della borsa. Ma la differenza è che se poi quei cordoni non potranno essere allargati più di tanto, a Salvini resteranno comunque in mano politiche sui migranti o sulla sicurezza che lo tengono in sintonia con il suo elettorato e con la destra rimasta fuori dal governo. Ai grillini, invece, nel caso prevalga il fronte di chi si oppone alla spesa sconsidera­ta, non resterebbe quasi niente. E questo spingerà Di Maio ad insistere sempre di più su richieste estreme collocando­lo (lui o chi per lui) in un’alleanza di fatto con quella parte ultrakeyne­siana della sinistra non eccessivam­ente preoccupat­a dell’ulteriore dissesto dei conti pubblici.

Ne discende che, nel caso

all’improvviso la situazione precipitas­se e si dovesse correre ad elezioni anticipate, il «partito delle due coalizioni», la Lega, sarebbe avvantaggi­ato rispetto al proprio partner di governo. In questo la Lega è agli antipodi del Psi che negli anni Settanta provocò per ben tre volte le elezioni anticipate (’72, ’76 e in qualche modo anche nel ’79) e tutte e tre le volte fu punito dagli elettori al cui cospetto si era presentato senza adeguate indicazion­i strategich­e. Il partito di Salvini oggi potrebbe permetters­i di «subire» un’interruzio­ne anticipata della legislatur­a provocata da un conflitto tra Di Maio e Tria anche perché questo scontro renderebbe successiva­mente assai difficile una sal- datura tra i Cinque Stelle, la sinistra e quello che potremmo definire il «fronte interno della responsabi­lità». È come se negli anni Settanta un Partito socialista in grande sintonia con i propri elettori si fosse trovato d’intesa con Ugo La Malfa che, per grandi linee, all’interno della coalizione governativ­a ricopriva il ruolo oggi impersonat­o da Tria. Quell’intesa lo avrebbe indotto a non cercare avventure nelle urne dal momento che ci avrebbe pensato il tempo a lavorare a suo vantaggio.

Per tutti questi motivi appare improbabil­e che, al di là delle quotidiane brusche variazioni di umore, alla fine dentro il governo si giunga ad uno scontro con Tria. Il partito che rischiereb­be di più da una crisi di governo sarebbe quello pentastell­ato anche se, rotti i rapporti con la Lega, riuscisse provvisori­amente ad allearsi con quel che resta della sinistra: quell’alleanza sarebbe instabile, reggerebbe qualche mese e non eliminereb­be il rischio di elezioni anticipate (nel 1979 elezioni politiche ed elezioni europee si tennero a distanza assai ravvicinat­a). Forse il ministro Tria — che ha carattere: ai tempi della sinistra extraparla­mentare fece parte di «Stella rossa» un gruppo minoritari­o composto esclusivam­ente da giovani dalle convinzion­i più che salde — ha dovuto cedere accettando la soglia del 2,4% per permettere che i seguaci di Beppe Grillo in pubblico possano vantarsi di aver ottenuto qualcosa. La Lega non pone veri problemi. Allo stato Tria è molto più forte di coloro che lo minacciano. Anche se, com’è noto, quando la tensione raggiunge i livelli di questi giorni, il fuoco devastator­e può sempre essere generato da un improvviso, imprevisto e imprevedib­ile effetto di autocombus­tione.

Avvantaggi­ato

Salvini ha l’opportunit­à di muoversi da solo: ha in mano le politiche su migranti e sicurezza

I pentastell­ati puntano a realizzare il reddito di cittadinan­za, quindi fanno richieste esose

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