E poi il ministro si arrese
Il malumore tra i tecnici del ministro stretto nella morsa
Ha provato a resistere fino alla fine, ma dopo una giornata convulsa il ministro dell’economia Giovanni Tria ha deciso di arrendersi.
Ha provato a resistere fino all’ultimo, Giovanni Tria. Ma alla fine di una giornata estenuante il ministro dell’economia ha perso: il deficit 2019 non sarà sotto il 2% del prodotto interno lordo, come avrebbe voluto lui, ma il 2,4%, un livello che fino ai ieri al Tesoro si erano rifiutati di prendere in considerazione. Tanto che fra i tecnici del dicastero ci sarebbe un forte malumore.
Ha vinto l’asse tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini: la politica sul ministro tecnico. Il Consiglio dei ministri riunito alle 21 per approvare la nota di aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza) è finito alle 23. Tria ha fatto buon visto a cattivo gioco. Il ministro non si dimette, assicurano i suoi collaboratori.
La giornata più lunga di Tria è cominciata ieri mattina con un faccia a faccia con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. A lui il titolare dell’economia ha ribadito tutti i motivi per i quali sarebbe stato meglio fissare il deficit per il 2019 non sopra il 2%: tenerlo fra l’1,6 e l’1,8%, massimo l’1,9%, avrebbe consentito da un lato di tenere aperto il confronto con la Commissione europea e dall’altro di avviare comunque le riforme previste dal programma di governo (flat tax, quota 100 sulle pensioni e reddito di cittadinanza) che poi sarebbero state irrobustite negli anni successivi. Tria ha insistito molto anche sulle misure per sbloccare gli investimenti pubblici: riforma del codice degli appalti; velocizzazione della giustizia civile; assunzioni per supportare le amministrazioni centrali e locali nella capacità progettuale.
Misure che senza bisogno di nuovi stanziamenti (ci sono 118 miliardi di euro da spendere per infrastrutture, lasciati in eredità dai governi Renzi e Gentiloni) potrebbero determinare l’apertura di molti cantieri, con un forte impatto sul Pil. E, con una crescita decisamente più alta di quell’1% scarso atteso nel 2019, migliorerebbero anche i saldi di finanza pubblica, cioé il rapporto tra deficit e Pil e quello fra debito e Pil, che sono i parametri cui guardano sia la Commissione europea sia i mercati.
Mentre a Palazzo Chigi Conte e Tria esaminavano le varie ipotesi, fuori però imperversavano le dichiarazioni dei due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, entrambi a chiedere un deficit ben oltre il 2%. Già nel primo pomeriggio si parlava di accordo tra i due per un disavanzo del 2,4%. Accordo che è stato quindi chiuso in un vertice tra Conte, Di Maio e Salvini. Ora, però, si trattava di farlo digerire a Tria, che nel frattempo era tornato al ministero dell’economia, dove ha consultato i suoi più stretti collaboratori e avrebbe avuto contatti anche con il Quirinale, che potrebbe aver convinto il ministro a restare al suo posto.
Alla fine tutto si è consumato in un nuovo vertice tra Conte e i due vicepremier, questa volta con Tria, che ha preceduto il Consiglio dei ministri, cominciato poco dopo le 21. Tria, ministro tecnico, si è trovato schiacciato tra i due pesi massimi politici del governo: Di Maio e Salvini, che hanno cercato di convincerlo con l’argomento che la responsabilità politica delle decisioni era appunto loro e che Conte avrebbe gestito la difficile partita con Bruxelles. Insomma è come se gli avessero chiesto di fare il notaio, limitandosi al suo ruolo tecnico, facendogli pesare anche che, quando ha accettato di fare il ministro, aveva letto il «contratto di programma», un testo che, come dice la parola, 5 Stelle e Lega considerano vincolante. Per loro e ancora di più per un tecnico.
Del resto se Di Maio aveva definito Conte, cioè il presidente del Consiglio, un «esecutore» perché non dovrebbe considerare come tale anche il professor Tria, che fino al primo giugno scorso era solo il preside di Economia dell’università di Roma Tor Vergata? Da ieri la vicenda della manovra è diventata solo politica: una partita che non vedrà più protagonista Tria.