Le telefonate anti-dimissioni
Mattarella, «calmieratore» della crisi, vuole evitare strappi con il ministro Tria
«Quante situazioni difficili abbiamo visto, noi che abbiamo i capelli bianchi… Per ora, dunque, aspettiamo i numeretti». Ecco la formula con cui al Quirinale sdrammatizzavano, ieri pomeriggio, il passaggio cruciale di questa fase critica per il governo. C’era da vedere a quale soglia del controverso «zero virgola» (i «numeretti», appunto) il vertice di maggioranza e il Consiglio dei ministri avrebbero fissato il rapporto deficit-pil, allentando i vincoli di bilancio, nel documento finanziario destinato a fissare le linee di quella che il Movimento 5 Stelle ha enfaticamente battezzato la «manovra del popolo», con l’obiettivo, nientedimeno, di «abolire la povertà».
Dopo giorni ad alta tensione tra chi puntava a fermare l’asticella a quota 1,6 per cento, come il ministro Giovanni Tria, e chi intendeva forzare la partita fino al 2,4, come Luigi Di Maio e Matteo Salvini, a tarda sera si è profilato l’accordo. Fissato, per dirla in concreto, intorno agli 8 miliardi voluti dai due vicepremier. Un en plein per loro. Un insuccesso per Tria, che ha dovuto adattarsi a un esito al quale era fermamente contrario.
Comunque una soluzione nel senso sollecitato in primo luogo dal presidente della Repubblica, che fin dall’inizio di questa partita si è speso per un compromesso in grado di tenere insieme il più possibile l’equilibrio dei conti (compatibilmente con le regole Ue) e le iniziative sulle quali spingono i partner della maggioranza. Indipendentemente da chi abbia vinto o perso, Sergio Mattarella, nel ruolo di «calmieratore» della crisi, voleva soprattutto che fossero evitati strappi con il ministro dell’economia, dove la parola strappi sta per dimissioni, ovviamente. Ci sono stati momenti molto duri per Tria, assediato in via XX Settembre con i suoi tecnici. Eppure, nonostante i ripetuti e pesanti diktat del capo dei 5 Stelle («pretendo che un ministro serio trovi i soldi») e le minacce dei suoi sottoposti per forzargli la mano («se non ci ascolta passeremo a un altro»), non si è lasciato logorare e non ha abbandonato la trincea. Fedele — come ha rivendicato, ricordando il proprio giuramento — all’impegno di svolgere l’incarico «nell’interesse esclusivo della Nazione».
Probabile che Mattarella abbia qualche giorno temuto che a Tria saltassero i nervi e che cedesse le armi. Fonti parlamentari dicono che questo stesse per accadere ieri e raccontano di una concitata catena di telefonate tra il ministro e il Colle.
Manca qualsiasi conferma. Ma, anche se non sappiamo che cosa avrebbe fatto l’inquilino del Quirinale qualora ciò fosse accaduto, non sembra azzardato pensare che si sarebbe comportato come il suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi, nel 2001, quando diffidò Renato Ruggiero, ministro degli Esteri nel secondo governo Berlusconi, a dimettersi. Ricordate? Si era alla vigilia del varo della moneta unica, e per una volta il vecchio presidente riuscì a frenare l’insofferenza di Ruggiero, convocandolo nel suo ufficio e appellandosi al suo senso dello Stato. Poi, l’incompatibilità della linea europeista del ministro con l’aspro antieuropeismo della Lega bossiana (e del collega forzista Tremonti) esplose e il prestigioso ex ambasciatore ed ex capo del Wto non volle più sentir ragioni e lasciò definitivamente la Farnesina.
Tra un po’ di tempo forse sapremo com’è andata sul serio ieri. Conta l’esempio che questa faccenda ci dà della travagliatissima stagione che Mattarella deve affrontare. Con l’attenzione alla tenuta dei conti pubblici (che gli compete per dovere d’ufficio), unita alle polemiche per la nomina del suo vice al Csm e al calvario dei primi decreti-bandiera dell’esecutivo.