L’equilibrismo dei banchieri Usa
La Federal Reserve ha alzato i tassi d’interesse (ora sono al 2-2,25%) per l’ottava volta da quando è iniziata la normalizzazione della politica monetaria dopo gli anni dell’emergenza provocata dal crollo della Lehman. Decisione scontata, dunque, ma non irrilevante e non solo perché per la prima volta dalla crisi il costo del denaro supera il tasso d’inflazione o per l’irrituale critica di Donald Trump: rompendo con la tradizione di riserbo dei suoi predecessori che hanno quasi sempre evitato giudizi diretti sulle decisioni della Banca centrale e sul valore del dollaro, il presidente si è detto contrariato da un aumento che vede come un freno all’economia. La Fed ha anche confermato l’intenzione di aumentare i tassi altre 5 volte entro la fine del 2020 (un’altra nel 2018 e tre l’anno prossimo) e ha ipotizzato un rallentamento della crescita economica nel 2019 rispetto a un aumento del Pil di quest’anno stimato poco sopra il 3%. Insomma Jerome Powell, nominato capo della Riserva federale proprio da Trump all’inizio dell’anno, difende l’indipendenza dell’istituzione, dichiara che non si farà influenzare da pressioni politiche. Ma l’anno prossimo il suo sentiero potrebbe farsi molto stretto: se l’america rallenterà, quasi certamente Trump ne darà la colpa ai «burocrati della moneta»: un rischio che non solo la Fed ma le banche centrali di tutto il mondo hanno ben presente in tempi di populismo galoppante e di rivolta contro gli esperti. Rischi di instabilità che i banchieri centrali di vari Paesi hanno discusso a porte chiuse di recente durante il loro raduno annuale a Jackson Hole. Se l’economia Usa dovesse arrivare col fiato grosso al 2020, anno di elezioni presidenziali, per la Fed sarebbero guai. Oggi il Pil cresce, mentre inflazione e disoccupazione restano molto basse: nessuno si fascia la testa in una situazione così positiva, ma lo sviluppo è sostenuto soprattutto da una riforma fiscale che spinge consumi e investimenti con forti tagli delle tasse che allargheranno il debito pubblico. È questo l’elefante nella stanza del quale pochi parlano: mentre in Italia ci si dilania sui decimali, a Washington Trump prepara un bilancio con un deficit di oltre mille miliardi: il 5% del Pil. I governi populisti, si sa, tendono a usare con generosità la leva della spesa pubblica e Trump può farlo per la forza del dollaro, ma anche perché i bassi tassi hanno fin qui consentito al Tesoro di indebitarsi a costi trascurabili. Ora non più.
© RIPRODUZIONE RISERVATA