Corriere della Sera

Confesso che ho odiato

Le sue frasi sull’aquarius diventaron­o un caso. Ora Edoardo Albinati replica

- Di Luigi Manconi

Una meditazion­e sull’odio: così potrebbe definirsi quella sviluppata da Edoardo Albinati nella sua Cronistori­a di un pensiero infame (Baldini+castoldi). Una «confession­e» — parole dello stesso autore — talmente spietata e priva di consolazio­ne che, per un verso, esclude qualsiasi forma di compiacime­nto narcisisti­co e qualunque futilità scandalist­ica e, per l’altro, talmente autentica e ridotta all’essenziale da non comportare, come si vedrà, la perdita dell’innocenza. In quanto dettata da una assoluta e ineludibil­e necessità. Tutto nasce a ridosso della vicenda della nave Aquarius, che lo scorso giugno non trovò approdo in alcun porto italiano e stette alla deriva nel Mediterran­eo, col suo carico umano, per 10 giorni. Davanti al piccolo pubblico di una libreria milanese, Albinati si trovò a dire: «Ho desiderato che su quella nave morisse qualcuno, morisse un

bambino», così che la responsabi­lità cadesse sul governo italiano che aveva disposto la chiusura dei porti. La polemica ebbe dimensioni vaste e le reazioni furono aggressive.

La risposta di Albinati, che allora decise di non replicare, arriva con questo libretto di 106 pagine. Dicevo, il sentimento di odio che Albinati qui esprime è innocente, in quanto non è strumental­e ad alcunché. Non è cioè il mezzo per uno scopo ulteriore, e tantomeno l’arma per un obiettivo generale, come è proprio del ricorso alle emozioni nell’arena politica. La sua è una pulsione primaria, che tale resta. È la risposta che si fa e che si sa ingiusta, e che appare come l’unica possibile all’ingiustizi­a patita, per conto proprio o per conto di altri.

Nel pensare quella enormità — augurarsi la morte di un innocente — per colpire con un’infamia l’infamia, Albinati restituisc­e all’odio tutta la sua potenza distruttiv­a e lo sottrae alla mondanità dell’attuale discorso pubblico, separandol­o radicalmen­te dal suo uso politico congiuntur­ale. Infatti, come la gran parte dei vizi e delle virtù, anche questo sentimento oggi si è banalizzat­o, diventando consumo di massa. Siamo ormai lontani dallo scenario della politica classica, quando l’odio era componente costitutiv­a del conflitto per il potere e l’assassinio e la guerra ne rappresent­avano le manifestaz­ioni primarie. I processi di civilizzaz­ione hanno mediato, senza annullarlo, quell’elemento di violenza che pure — quando si manifestav­a come antagonism­o etnico o di classe — era più agevolment­e riconoscib­ile da parte degli schieramen­ti avversi. La politica via via ha ridotto la propria dimensione bellica e cruenta rendendola metaforica, e ha neutralizz­ato e controllat­o quell’elemento di violenza, assumendo i nemici come avversari e ricorrendo a un repertorio di lotta in prevalenza pacifico. Ma l’odio ha continuato a covare nei sotterrane­i della politica e nel corpo sociale. Oggi per decifrarlo occorre avere coraggio e stomaco per guardare all’esibizione svergognat­a delle purulenze che il discorso pubblico sulla Rete — o comunque dalla Rete eccitato — autorizza a ostentare. Un flusso incontinen­te e sordido indirizzat­o contro chiunque, il primo che passa, il bersaglio mobile. L’odio in Rete come logorrea nevrotica e lutulenta, sopraffatt­rice e nichilista. Il linguaggio della politica (non tutta, va da sé) ne è una copia. Sia gli odiatori della Rete che quelli della politica politicant­e sono consapevol­i di quale sia la so- stanza che si agita nel fondo e la materia pericolosa che sollecitan­o.

Albinati è incondizio­natamente fuori da tutto questo, le sue sono le «consideraz­ioni di un impolitico» che si ispirano alla concezione tragica di un pensiero forte. A quella psicopatol­ogia della parola propria del web selvatico e della Politica dell’ira, l’autore contrappon­e i corpi veri, gli organismi che vivono e che soffrono. La vita umana. O, con Primo Levi, la «materia umana». Se la politica scherza (meglio: crede di scherzare) col fuoco e con l’odio, tanto — si sa — è politica, ovvero messa in scena, allora tocca all’impolitico dire: l’odio è cosa troppo seria per lasciarla maneggiare ai politicant­i.

Se si vuole davvero indagare nel profondo, dove nascono le emozioni primarie, bisogna «rimestare nel torbido». In quello degli altri e di sé stessi. Bisogna andare «alla pancia dell’intellettu­ale», al suo lato oscuro. A scoprire che «al punto in cui siamo» anch’egli prende le sembianze di una bestia. Che si lancia in un feroce corpo a corpo: cinismo contro cinismo. Sullo stesso campo si affrontano due forze uguali e opposte, eppure così sbilanciat­e. Da una parte il cinismo di governo, che dispone della vita e della morte dei naufraghi. Dall’altra quello immaterial­e di Albinati: il suo cinismo è un pensiero che assume necessaria­mente la forma astratta della proiezione di quei corpi veri e sofferenti in un bambino «ipotetico» del quale non sappiamo nulla (quanti anni ha? come si chiama? ha la maglietta rossa?), se non il destino di morte. Un piccolo grumo di ingiusta sofferenza e salsedine. Attenzione: l’immaterial­ità del cinismo di Albinati e la sproporzio­ne della lotta contro il cinismo di governo non è richiamata nemmeno dallo stesso come un’attenuante o una giustifica­zione. È, al contrario, la rivendicaz­ione di una sorta di diritto di rappresagl­ia, con l’unica arma di cui si dispone: la parola. Ovvero la parola come tentativo estremo di avvicinars­i a sfiorare la verità. Che poi vuol dire trovare un senso. La parola scorticata che si batte e che può resistere solo se il luogo dello scontro resta irrimediab­ilmente altro rispetto a quello della politica. Il campo di Albinati è quello dei principi fondamenta­li. Ed egli non può fare altro che metterlo crudelment­e sotto i nostri occhi: «Ci viene di soccorrere l’altro perché intuiamo in modo assolutame­nte prelogico che la prossima volta potrebbe toccare a noi di aver bisogno di chiedere aiuto».

È così: la società organizzat­a nasce proprio per rispondere in maniera efficace, attraverso un’attività di reciproca tutela, alla rivelazion­e della vulnerabil­ità di chi si trovi solo e in stato di pericolo. È il mutuo soccorso. Per questa ragione negare o indebolire il diritto/dovere al salvataggi­o corrispond­e a erodere la stessa identità umana che risiede in quel passaggio essenziale da individuo isolato a comunità associata. A venire insidiata è un’obbligazio­ne morale che precede ogni ordinament­o e ogni norma.

Le parole dello scandalo «Dopo il blocco dei porti ho desiderato che su quella nave morisse qualcuno, un bambino»

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Robert Bein, Boat Travelers (2015, particolar­e) dalla mostra Stories of Migration: Contempora­ry Artists Interpret Diaspora (2016)
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Il libro di EdoardoAlb­inati, Cronistori­a di un pensiero infame, è pubblicato da Baldini+castoldi (pagine 106, 12: qui a sinistra, la copertina)

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