Il passato è una scatola rossa gettata in fondo allo Stretto
In «Addio fantasmi» (Einaudi Stile libero) Nadia Terranova racconta l’ossessione di una perdita
Il contenuto enigmatico, materiale e immateriale insieme, di una preziosa scatola rossa viene gettato con commozione liturgica nelle acque tra Messina e Reggio, tra l’isola degli affetti e dei ricordi e il continente, tra la casa dell’infanzia perduta e quella dell’età adulta ancora incompiuta, tra Cariddi e Scilla. È in questo gesto solenne e liberatorio insieme che Ida, la protagonista del romanzo di Nadia Terranova Addio fantasmi (Einaudi Stile libero), fa sì che suo padre avrà una tomba «sul fondo dello Stretto»: e, davvero, «esca di scena».
Non si dà possibilità di superare il lutto se non si dà una degna sepoltura a chi ci ha lasciati. Non ci si affranca da uno stato di dolorosa sospensione, da un vagare tormentoso e irrequieto attorno alle vestigia del passato che non passa mai, fino a che la terra o l’acqua non custodiscano i resti di chi ci ha abbandonato in questo mondo. Ida «sta in mezzo a due terre», da quando era bambina. La sua casa «non è nessuna delle due». C’è la casa che aspetta, nel continente: un marito, una storia senza figli perché da figli si è stati troppo male ed è un cruccio perenne perpetuare la sofferenza in un altro essere umano. E poi, il cuore di questo romanzo, c’è la casa di Messina «che mi dice addio», piena di oggetti che parlano e di cui ci si dovrà disfare. Invece: né qui, né lì, ma dappertutto, davvero dappertutto, nel cuore, nei ricordi, nelle ossessioni, nella vita che rimane, c’è il fantasma inquieto che non avrà pace. L’«addio fantasmi» che compare nel titolo è un’invocazione, una sfida, un’insofferenza. Oppure lo svanire di uno spettro il cui ricordo doloroso avvelena l’esistenza. Ora quel fantasma è lì, in fondo al mare, in uno Stretto che non conosce ponti, nemmeno simbolici. Addio, fantasma del padre che esce di scena, finalmente. Peccato che esista quello di Philip Roth, altrimenti Il fantasma esce di scena sarebbe stato il titolo perfetto di questo romanzo che non dà requie.
Il caso ha voluto che leggessi questo di Nadia Terranova contemporaneamente a un libro straordinario come Un’odissea. Un padre, un figlio, un’epopea di Daniel Mendelsohn, tradotto da Einaudi. Le peregrinazioni dell’odissea, spiega Mendelsohn, cominciano quando Telemaco, assediato dai Proci che vogliono umiliare Penelope, che non vede il marito da vent’anni, parte per conoscere la sorte del padre Odisseo. È vivo? È morto? Telemaco interroga chi ha visto il padre in azione a Troia, ma nessuno sa dove sia finito, e la sofferenza e lo stordimento di Telemaco dureranno fino al ritorno di Odisseo a Itaca. E anche a Itaca, lo stesso Odisseo vivrà il dramma del riconoscimento, la commedia degli inganni e degli equivoci, il dolore di un’identità camuffata.
Ecco, per il personaggio di Addio fantasmi, il ritorno a Messina è un’itaca, ma un’itaca al contrario: solo andandosene, solo svuotando la scatola di ferro rosso, si placa il fantasma. A Messina Ida viene chiamata dalla madre che vuole vendere la casa. Deve raccogliere le sue cose, selezionare ciò che deve buttare nella camera che era il suo rifugio quando era ragazza, sorvegliare i lavori sul terrazzo, con un ragazzo greco che le confesserà una storia atroce, ma piena di pathos. Però ogni oggetto, ogni fotografia, ogni frammento, ogni respiro di quella casa racconta di un abbandono, di una disperazione, di un padre che un giorno è sparito nel nulla. È morto? È vivo? Sono le domande che assillano Ida da anni, da decenni. Le stesse domande di Telemaco che va alla ricerca del padre che non c’è più. Ma che vuole dire esattamente «non c’è più»? Qualcuno ha forse visto il corpo del padre che non c’è più? È stato celebrato un funerale, qualcuno ha interrato una bara con la salma di chi non c’è più, qualcuno ne ha sparso le ceneri? Addio fantasmi è appunto il racconto della differenza tra una scomparsa e una morte accertata. Definiamo il sentimento di chi rimane con la stessa parola: lutto. Ma è un lutto diverso, complicato da punti interrogatovi, angosce, smarrimento, il lutto per una persona che non c’è più ma di cui non c’è un certificato di morte. C’è la morte, ma nel cuore. C’è il ricordo straziante di una moglie e di una figlia che assistono allo spettacolo di un uomo distrutto, che non è capace di alzarsi dal letto, schiacciato da un dolore infinito e paralizzante. Ci sono i rimproveri, le recriminazioni, le ingiuste rappresaglie di chi in quel ricordo sente che le è stato rubato un pezzo di vita, gli imperativi di una giovinezza prepotente ma stordita da un dolore immedicabile.
Sono pagine che non inducono alla serenità, queste di Nadia Terranova, ma che caricano i dolori dell’esistenza di risonanze filosofiche sull’assenza, la scomparsa, l’abbandono, la perdita. Non il lutto come normalmente si conosce, un corpo che muore, un funerale, una cerimonia degli addii, un rito funebre: tutti gli atti che scandiscono nel mondo il passaggio di un essere umano da qui all’aldilà. Ma il rimuginare eterno sul «non più». Anzi, non eterno: ma concluso quando una scatola di ferro rosso viene gettata in un meraviglioso stretto di mare. Non la pace interiore raggiunta, perché quella non si raggiunge mai. Ma un ordine ristabilito, la fine di uno smarrimento senza confini. Quando il fantasma, dopo l’addio, esce di scena.
Dolore
Ida torna a Messina e deve fare i conti con un vecchio trauma: la scomparsa del padre