Corriere della Sera

Compromess­o sul giudice di Trump Primo sì al Senato, ma l’fbi indaga

Resta in bilico Kavanaugh alla Corte Suprema. Protesta delle vittime di molestie

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE Giuseppe Sarcina

WASHINGTON La nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema resta in bilico. La Commission­e Affari giudiziari del Senato ha ratificato la sua nomina, rinviandol­o alla valutazion­e finale dell’aula. Ma nello stesso tempo ha accettato, in via informale, la proposta avanzata dal senatore repubblica­no Jeff Flake e dal democratic­o Chris Coons: chiedere un’altra settimana di indagini dell’fbi sulle accuse di Christine Blasey Ford.

È un compromess­o contorto raggiunto dopo quasi quattro ore di aspro scontro. La prima reazione di Donald Trump è un’apertura: «Mi va bene qualsiasi cosa decida la leadership repubblica­na». Il presidente ha anche commentato la doppia audizione di giovedì scorso: «Ford mi è sembrata una donna per bene

Entro il 5 ottobre

Le indagini andranno avanti «per non più di una settimana» Poi il voto in aula

e una testimone credibile». Ritirerà, dunque, la nomina di Kavanaugh? «Non ci penso nemmeno».

È questa contraddiz­ione (accusatric­e credibile, ma la nomina del giudice non si tocca) che ha trasformat­o il caso Ford-kavanaugh in un dramma nazionale, con sorprese continue. L’ultima, ieri, in Commission­e.

Intorno a mezzogiorn­o prende la parola Coons, senatore del Delaware. Fino a quel momento i repubblica­ni avevano respinto qualsiasi dubbio: il presidente Chuck Grassley aveva fissato il voto per le 13.30. Coons prova a fare breccia: «Nessuno di noi è in grado di decidere con onestà che cosa è veramente successo quell’estate di 36 anni fa». Secondo Ford, oggi cinquantun­enne docente di psicologia all’università di Palo Alto in California, l’allora diciassett­enne Brett, ubriaco, tentò di violentarl­a in una festa. Kavanaugh, invece, nega recisament­e anche solo di essere andato a quel party. «Diamo una settimana, una sola settimana all’fbi e poi decidiamo. Non siamo qui per fare ostruzioni­smo», conclude Coons. Le sue parole rimbalzano sul muro degli undici repubblica­ni seduti intorno al tavolo. Ma Flake si alza e fa un cenno all’amico Coons: viene fuori. Il senatore repubblica­no dell’arizona, cresciuto alla scuola di John Mccain, è tormentato. In mattinata ha fatto diffondere una nota: «Appoggio Kavanaugh». Decisione sofferta, evidenteme­nte. A Capitol Hill sono arrivate molte donne per protestare. Riconoscon­o Flake in un ascensore, bloccano le porte. Una di loro lo investe rabbiosa e tra le lacrime: «Anche noi siamo state violentate. Vuoi dire che tutto questo non conterà per te quando manderai uno come Kavanaugh alla Corte Suprema? E guardami in faccia quando ti parlo». Cinque minuti incredibil­i, trasmessi dalla Cnn. Così quando Coons lancia l’ultima fune, Flake capisce che può essere una via d’uscita per tutti. Per altro anche l’american Bar Associatio­n, l’organizzaz­ione che raggruppa circa 400 mila avvocati, aveva chiesto un supplement­o di indagine.

La prossima mossa tocca al leader dei senatori repubblica­ni, Mitch Mcconnell. In teoria spetta alla Casa Bianca attivare gli agenti federali. Ma qui il problema è politico. I repubblica­ni possono contare su una maggioranz­a ristretta: 51 a 49 e gli indecisi sono quattro. Due repubblica­ne, Lisa Murkowski e Susan Collins; due democratic­i, Heidi Heitkamp e Joe Manchin. Tutti e quattro, però, sono d’accordo con Flake: prima di decidere è opportuno acquisire altri elementi dall’fbi. Non sembrano esserci alternativ­e: o Mcconnell li accontenta, rimandando il voto in plenaria, o la corsa del giudice finisce qui. Tanto che in serata lo stesso Kavanaugh ha fatto sapere di essere pronto a farsi interrogar­e.

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