SALVATORE CANTASTORIE FRAINTESO
Un libro di Lopez (Aliberti)
Una vita violenta, ma anche una vita violentata, quella di Matteo Salvatore, l’ultimo cantastorie, di Beppe Lopez (Aliberti, pagine 266, 18), una biografia che è una minuziosa indagine retrospettiva, come se si trattasse di un cold case, su tutto ciò che si credeva di sapere e invece non si conosce di un monumento della musica folk italiana, quel Matteo Salvatore da Apricena, Foggia, lanciato da Claudio Villa, paragonato a Woody Guthrie da Pier Paolo Pasolini, considerato un inventore di parole da Italo Calvino, ammirato come fossero suoi fan da Giovanna Marini e dal colto Otello Profazio — due stelle del folk italiano —, sostenuto e non solo artisticamente da Renzo Arbore e Mariangela Melato, tenuto vivo ancora oggi, a 13 anni dalla sua morte, da Eugenio Bennato, che di fatto ne è l’erede, e da Teresa De Sio, Daniele Sepe, Vinicio Capossela e praticamente tutti i gruppi di musica popolare di Puglia, Basilicata, Calabria, Campania. Cioè, quel profondo Sud che nelle arti e nello sport ha sfornato tanti negri dalla pelle bianca, nessuno dei quali, o quasi, ha avuto una vita facile o anche solo «normale».
Poverissimo, letteralmente morto di fame come «i cafoni all’inferno» ai quali appartiene — raccontati in un insuperabile reportage sociale dal grande meridionalista Tommaso Fiore tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta —, analfabeta, smanioso di scappare via dal suo inferno, Matteo Salvatore ha la voce, la fantasia, la poesia, e ha la chitarra. Compone e canta direttamente. Non scrive le parole, ovviamente, e nemmeno la musica. Trova nella tradizione popolare, raccoglie sonetti e nenie tramandati oralmente, aggiunge, trasforma, inventa e persino «spaccia» per antico ciò che invece ha composto due sere prima. Ma tutto ciò che tira fuori è bellissimo, affascinante, forte, canzonatorio, triste ma anche allegro, appassionato e a volte rabbioso, nonostante il dialetto in cui canta, che non è il napoletano o il romanesco, e nemmeno il calabrese, ma l’ostico dialetto foggiano, in cui le vocali quasi non esistono.
Salvatore ha successo, può assicurare una vita degna a moglie e figli, diventa milionario. Ma diventa anche un assassino, sebbene prete r intenzionalmente, quando in un albergo di San Marino, al culmine di un litigio con Adriana Doriani, sua «spalla» per 15 anni, ma soprattutto l’amore della sua vita, la uccide. Sconterà sette anni, dopo una revisione del processo, e tornerà sulle scene. Ma nulla sarà come prima. Prima, bastava una sua strofa a innescare recensioni positivissime, soprattutto da sinistra. Apprezzamenti meritati, certo, ma spesso più esilaranti della caricatura che Luciano Bianciardi faceva degli intellettuali che dovevano «educare» il popolo, perché erano «analisi» che volevano far dire a Matteo Salvatore cose che lui non diceva: le sue ballate non erano soltanto di rivendicazione e di rivolta, ma anche di rassegnazione, di amore negato, di esplicita allusione sessuale, di puro e semplice sfottimento. Dopo la «disgrazia», sarà una lenta discesa, umana più che artistica, verso una vecchiaia e una morte in solitudine.
Lopez racconta l’uomo e l’artista senza trascurare nulla. Documenti, testimonianze dirette, ricostruzioni di alcuni fatti affidate al confronto di versioni diverse, indagine psicologica sulle ossessioni, reali, di Matteo: la fame, le donne, il denaro, il sospetto nei confronti del prossimo che è sempre un probabile nemico, la vulnerabilità. Una biografia che sembra quella di un re, il re dei cantastorie.