L’ANZIANO CHE HA LAVORATO E LA PENSIONE DI CITTADINANZA
Caro Aldo, alcuni colleghi di lavoro della «veneranda» età di 43 anni discutevano di quota 100 e di quanti anni mancassero alla sospirata pensione. Delude sapere di giovani smaniosi di offrirsi al mondo del lavoro, ma delude ancora di più sapere che lavoratori con una ottima condizione sociale e lavorativa smaniano per la pensione in quanto delusi da come la cosiddetta «risorsa umana» viene considerata all’interno di certe macro strutture aziendali. In questi due fatti, non riesco a trovare davvero nulla di buono o positivo, ma solo tanta voglia che il nostro Paese trovi la rotta giusta!
Marco Rigotti, Brescia
Caro Marco,
La sua lettera coglie un punto segnalato da molti altri lettori. Il messaggio che arriva al Corriere è più o meno questo: «Ho lavorato una vita, prendo mille o 1200 o 1500 euro al mese di pensione. Non mi lamento. Però mi fa rabbia l’idea che lo Stato versi per legge 780 euro, cioè poco meno di me, a persone che hanno lavorato poco o nulla».
Sostenere i poveri è giusto. Credo che nessuno di noi voglia vivere in un Paese in cui ad alcune famiglie mancano il latte per i bambini o la possibilità di curare gli anziani. Ma gli aiuti universali contraddicono il principio di equità e di giustizia. Generano aspettative destinate a restare insoddisfatte, e quindi a lungo andare alimentano quel rancore e quella frustrazione che segnano il nostro presente. L’italia spende ancora troppo per le pensioni. Per comprare consenso si garantiva un vitalizio a persone che non avevano ancora compiuto quarant’anni. A fatica si è posto rimedio alle situazioni più scandalose. La riforma Fornero, urgente e quindi affrettata, ha causato dolore e ingiustizie. Giusto intervenire per sanarle. Ingiusto e irresponsabile promettere tutto a tutti. Mandare in pensione giovanottoni di sessant’anni rischia di avere lo stesso effetto del reddito di cittadinanza: disincentivare il lavoro regolare, e incoraggiare il lavoro nero.