Gauguin e gli altri re del colore Mezzo secolo di storia francese
Bano: «Dopo 21 anni di mostre, ricominciamo con lo spirito degli esordi»
Ingres e Delacroix invitano al percorso, duettando con citazioni dantesche. Il primo con un portentoso tre pezzi su tela raffigurante il Poeta che offre a Omero la sua Divina Commedia, il secondo inchiodando il visitatore con un ritratto del conte Ugolino e i suoi figli, e c’è un terzo, Honoré-victorin Daumier, pittore, poeta e polemista anti-monarchico, che la mette in caricatura con Il lottatore, del 1862 circa.
La mostra «Gauguin e gli impressionisti. Capolavori dalla Collezione Ordrupgaard», mezzo secolo di storia dell’arte francese, dal romanticismo al post-impressionismo, si conclude al piano nobile di Palazzo Zabarella, dimora aristocratica della Padova cinquecentesca, oggi sede della Fondazione Bano, con una serie di opere di Gauguin e Matisse, dopo aver proposto paesaggi, ritratti e marine di Corot, Courbet, Daubigny e le immersioni nella luce di Monet e seguaci, dai fedelissimi Sisley, Pissarro, Renoir, ai grandi eretici, a loro volta innovatori, come Manet e Cézanne.
Una sessantina di capolavori, tutti francesi solo francesi. Buon anniversario.
La mostra scelta dal presidente Federico Bano per il 21esimo anno di attività espositiva della sua Fondazione parla e, soprattutto, dipinge in francese. Come mai? «Perché a questo giro di boa volevamo provare nuove emozioni, ricominciando da dove siamo partiti. Era il 1997 e la Fondazione inaugurava con due grandi francesi: Utrillo e Picasso», racconta Bano. «Quando ci si è presentata l’occasione di accogliere, in prima assoluta per l’italia, questa celebre collezione danese, creata ai primi del Novecento dal banchiere e filantropo Wilhelm Hansen e sua moglie Henny, l’abbiamo accolta
Il percorso padovano Nel ‘97 la Fondazione Bano lanciava Utrillo: da allora almeno un appuntamento l’anno
come un segno. Come accadde 21 anni fa con Hayez. Eravamo in fase di restauri, io sapevo degli affreschi realizzati da un giovanissimo Hayez per il palazzo, ma non ne trovai traccia. Finché un giorno, scoprii in una soffitta delle casse polverose contenenti i quattro dipinti perduti: erano stati strappati per far posto a nuove decorazioni. Emozionato, decisi che l’800 sarebbe stato il secolo delle mie mostre. Anche il danese Hansen è partito dall’800, lui si è innamorato dei dipinti storici; io, padovano, delle odalische».
L’occasione che ha reso fattibile questa mostra itinerante, proveniente dal Musée Jacquemart-andré di Parigi e dalla National Gallery of Canada, e che dopo la tappa in Italia, toccherà la Svizzera e Praga prima di rientrare all’ordrupgaard, a nord di Copenaghen, attualmente chiuso per il rinnovo del museo.
Quella creata dal mecenate Hansen è oggi considerata una delle più complete e pregiate una maggiore solidità dei volumi, da immagini antinaturalistiche e da un colore non corrispondente alla realtà, ma simbolico ed emotivo. Si aggiungeva, anche, un cambiamento della temperatura psicologica che passava dalla spensieratezza con cui gli Impressionisti ritraevano persino il misero mondo di sartine, modelle e ballerine, alla malinconia delle sfatte demimondaine di Toulouse-lautrec, dei volti sempre perplessi raccolte europee di arte impressionista. Nata per amore, per passione, è lo stesso Wilhelm a confidarlo alla moglie, Henny Jensen (18701951), sposata nel 1891, subito dopo aver fatto i primi acquisti a Parigi nel 1916. Euforico, le scrive. «Per il resto trascorro il tempo guardando quadri, ed è meglio che confessi ora, e non più tardi, che sono stato sconsiderato e ho fatto acquisti importanti. Ma so che mi perdonerai vedendo cosa ho preso: tutto di prima classe, con tanto di stelle».
Visionario, idealista ma di Van Gogh e Gauguin. Anch’egli, nonostante i gialli, i rossi, i verdi e i rosa degli idilli polinesiani, aveva un’anima che volgeva al bruno, sofferente tanto quanto quella dell’amico Van Gogh che per lui si era tagliato l’orecchio.
Prima di dedicarsi alla pittura, la sua vita sembrava avviata lungo i binari dritti di una tranquilla esistenza borghese: impiegato in un’agenzia di cambio, sposo di una ricca ragazza danese e padre di cinque figli. Ma con il crollo della borsa in Europa, nel 1883, cadde a pezzi anche il suo fragile equilibrio. Il desiderio di dedicarsi all’arte divenne incontenibile, costasse anche una vita di stenti, malattie e depressione come quella che l’aspetterà da lì alla morte e lo inseguirà fino alle isole Marchesi dove si spense dopo aver sobillato i nativi a non pagare le tasse ai francesi le sedi dove è già stata allestita la mostra da poco arrivata a Padova: il Musée Jacquemartandré di Parigi e la National Gallery of Canada. Quindi si sposterà in una sede svizzera e poi a Praga pragmatico. «Era pur sempre un uomo d’affari, un manager illuminato, diremmo oggi», interviene Fernando Mazzocca, che con Anne-birgitte Fonsmark, direttrice dell’ordrupgaard Museum, ha curato la mostra, «ma aveva un illimitato amore per l’arte, a dispetto delle sue origini borghesi, e dell’essere cresciuto in una casa che non aveva quadri alle pareti. Cominciò a collezionare arte danese. Poi, dopo il viaggio galeotto a Parigi non ci fu verso».
Voleva gli impressionisti, le star del momento, ma riteneva
Il curatore Mazzocca: «Hansen scelse con cura gli artisti da collezionare, con l’aiuto dei critici»
giusto accoglierli in una cornice adeguata, «così si dedicò anche alle generazioni di artisti immediatamente precedenti e alle successive. Divenne amico di pittori, consulente di galleristi e mercanti top, tra cui Théodore Duret, Ambroise Vollard, Paul Rosenberg. E fu anche un gran frequentatore di salon: gli piaceva follemente sentire l’odore dei quadri». e a non mandare i figli alla scuola missionaria.
Poteva, un uomo così, dipingere in maniera convenzionale i tronchi degli alberi con il marrone e le foglie con il verde? Poteva accontentarsi di copiare la realtà così come la vediamo tutti? «Niente è stato mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non per uscire, di fatto, dall’inferno», ha scritto Antonin Artaud. E Gauguin ha tentato di uscire dalle fiamme della sua mente scegliendo di forzare i colori in simboli, ma al punto che persino i Simbolisti, i primi ad apprezzarlo, lo abbandonarono.
Nella sua pittura non ci sono misteri ed enigmi posti da Sfingi o Sirene; non ci sono fiabe, ma solo domande da scolpire sulla pietra: «Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?», come recita il titolo di un suo celebre quadro. Le forme sono potentemente riassunte e semplificate. I colori arbitrari e antinaturalistici: gli alberi blu e le colline rosse per appellarsi all’emozione scavalcando il mito, la cultura, l’interpretazione dei sogni. In sostanza, lasciando alle spalle la civiltà occidentale, come auspicava: «Che me ne importa della gloria di fronte agli altri! Per questo mondo Gauguin sarà finito, non si vedrà più niente di lui».