Melodramma sull’esilio tra desolazione e lacrime
Piangere è davvero un verbo intransitivo? In Saigon, lo spettacolo di Caroline Guiela Nguyen in scena all’auditorium per Romaeuropa festival, o forse nella città di Saigon, o nell’intero Vietnam, è ben diverso. Siamo accanto a una persona che piange, se questa persona ci è cara piangiamo anche noi. Lo stesso se assistiamo a uno spettacolo in cui continuamente si piange. O non è così? Sì, forse nel caso di uno spettacolo, è così; ma anche no. Quando si piange troppo, dico in uno spettacolo, lo spettatore rimane forse coinvolto dal pianto dell’attore, ma dopo un po’ ci si asciuga quella breve lacrima e si torna a guardare.
Se per natura amiamo il melodramma («tendenza melodrammatica» definisce la regista della compagnia Les Hommes Approximatifs ciò che nella cultura vietnamita si chiama «cammino del pianto») potremmo anche ricominciare a piangere, posto che si sia smesso. Se il cammino del pianto ci stanca, se ci stanchiamo di camminare piangendo, potrebbe accadere l’inverso, di diventare cattivi, di stufarci di vedere gli altri piangere. Piangere ridiventa un verbo intransitivo.
Nello spettacolo dell’auditorium ci sono in scena undici attori, francesi, vietnamiti e francesi di origine vietnamita. Personalmente, sarà bene lo dica in modo esplicito, nel primo tempo quelle disgraziate e raggirate donne vietnamite mi commuovevano. Poi mi sono stancato, ho creduto di capire che nella finzione, se non nella realtà, a loro piangere faceva bene, ma che tutta la faccenda la si tirasse così per le lunghe non era cosa (per me) buona. Dopotutto eravamo a teatro, e se la realtà non ha leggi, il teatro (la finzione) in un qualche suo modo le ha, le deve avere.
All’opposto, allo scopo di riflettere la realtà, il testo drammaturgico di Jérémie Scheidler e di Manon Worma. La storia dell’esilio (colonizzazione e decolonizzazione) veniva raccontata da Pam, la cameriera del ristorante Saigon, a Parigi nel 1996. Accanto a lei, in cucina, Marie Antoinette: alla fine la più disperata: suo figlio, arruolato in Indocina e spedito a combattere in Francia durante la guerra con i tedeschi, è morto in un bombardamento degli «alleati» (che significa alleati? viene chiesto nel caos delle lingue, quando al francese e al vietnamita subentra l’inglese).
Häo, nel 1956, dopo Dien Bien Phu, parte per la Francia e lascia Mai facendole mille promesse che non manterrà pur a Parigi non consolandosi affatto con Cécile (tutti si incontrano in quel ristorante sempre uguale a se stesso — che tra parentesi è la scena fissa ma luminosa e bella). A specchio, il francese Edouard mette in piedi la commedia di un matrimonio con Linh, di fatto non la sposa e le lascia il non ancora nato Antoine — che ritroveremo in Francia quarant’anni dopo. Quale il destino di Linh se non di piangere due volte? La seconda perché il figlio è andato a cercare la tomba del padre e lei no, lei non c’è mai andata.
Desolazione e lacrime così siglano una lunga storia di violenze oscure o manifeste.