La rivolta di Glenn Close Viaggio che diventa inferno
In coincidenza con l’anno orribile in cui l’accademia di Svezia non assegna il Nobel per la letteratura, godiamoci un melò coniugale in cui il protagonista, l’americano Joe Castleman vince il Nobel nel '92 ma la serata si trasforma in un inferno in cui la privacy viene bombardata e gli affetti messi a dura prova.
La coppia parte per Stoccolma col rampollo frustrato (Max Irons, il figlio d’arte) che, ovvio, vuol copiare papà: ma papà invece chi ha copiato? Il dilemma è lo stesso di Big Eyes di Burton, qualcosa non funziona nei bilanci delle ispirazioni, perché ci sono assonanze tra gli scritti del vanaglorioso scrittore che cita Eliot e i primi tentativi letterari della moglie, fino a ora remissiva ma pronta a porte chiuse d’hotel al clima da «Virginia Woolf» che si scatena trascinando il passato evocato. Con loro, in viaggio, un molesto e non richiesto biografo che fiuta il maxi gossip di famiglia, il nocciolo della questione thriller.
Realizzato con determinazione teatrale (Bergman ne avrebbe fatto uno spettacolo di sontuosa psicologia) da Bjorn Runge, il film scavalca spazio e tempo per mostrare i protagonisti da giovani, ma è la zona meno interessante anche se la ragazza è figlia di Glenn Close. Nel complesso solo una prova di buona scrittura, che manca di tensione interna, prevedibile anche nei colpi di scena, compreso l’ultimo. A salvare tutto c’è, oltre a Jonathan Pryce, una immensa Glenn Close, che fa una inversione a U dalla sottomissione alla rivolta, facendoci intuire tutto.
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