Giudici e detenuti insieme Dialogo sulla Costituzione
L’inno di Mameli e domande degli immigrati
Un giorno a Rebibbia. Detenuti e Consulta a parlare di Costituzione. Sull’inno di Mameli i duecento carcerati si alzano in piedi, qualcuno si mette la mano sul cuore, come forse ha visto fare ai calciatori, e canta. Dietro le sbarre si spiega la legge.
ROMA Sulle note dell’inno di Mameli i detenuti si alzano in piedi e cantano, un po’ fuori tempo ma convinti, come vedono fare ai calciatori della Nazionale in tv. Alcuni mettono la mano sul cuore. Anche qualche giudice costituzionale, tra i dieci sul palco, accenna le strofe, e alla fine il «Sì!» dei reclusi risuona fragoroso nel teatro del carcere romano di Rebibbia. Gridato anche dagli stranieri che partecipano all’incontro per mettere in evidenza la loro condizione.
Zuvra H., donna di origini nomadi che vive in Italia dal 1983, madre di undici figli di cui quattro italiani, chiede se sia giusto che quando avrà scontato la pena non potrà avere il permesso di soggiorno in quanto pregiudicata. Il giudice Giancarlo Coraggio le risponde che il rifiuto del permesso non può essere motivato solo a causa dei precedenti penali.
In tempi di provvedimenti che mettono insieme immigrazione e sicurezza, sono precisazioni che pesano. Ma più in generale pesa — e molto — la scelta della Corte costituzionale di andare nelle carceri d’italia a parlare di diritti e doveri, e dunque di Costituzione. Un viaggio che comincia da Rebibbia dove i giudici guidati dal presidente Giorgio Lattanzi dialogano con oltre duecento detenuti che ascoltano e fanno domande, in diretta streaming con 150 istituti sparsi in tutta Italia, per una platea di circa 11.000 persone che scontano una pena o attendono in cella l’esito di un processo.
«Può sembrare strano venire a illustrare una legge come la Costituzione nel luogo in cui la legge può apparire nemica — dice Lattanzi —. Ma la nostra Costituzione, che è una legge giusta, non è mai nemica, e rappresenta un indispensabile strumento di tutela per impedire abusi e prevaricazioni».
Il mosaico di volti e tatuaggi mescolati alle grisaglie di giudici e autorità diventa l’immagine della «legge giusta» che non si ferma davanti alle mura delle prigioni, ma vive anche al loro interno. Le facce variegate dei reclusi — tirate e rilassate, cupe e sorridenti, rassegnate e curiose, diffidenti e molto altro, ognuna con la sua storia di diritti negati prima agli altri e poi a se stessi — rappresentano la «carne viva» su cui affonda il messaggio di Lattanzi: le pene devono tendere al reinserimento del condannato nella società, e dunque nessuna legge può porre preclusioni assolute o limiti insuperabili alla concessione di benefici e alla «risocializzazione» dei detenuti, i quali meritano di essere valutati nei loro cambiamenti. La Corte l’ha stabilito e ribadito più volte, anche in sentenze recenti che hanno dichiarato illegittime regole e divieti troppo stringenti.
Anna Maria R. — mamma, nonna e bisnonna di 68 anni, chiusa in cella da tre e mezzo — vorrebbe norme meno rigide su telefonate e colloqui, perché «l’affettività è importante per non perdere definitivamente i contatti con il mondo che abbiamo lasciato fuori da qui». L’applauso scrosciante fa capire quanto il problema sia sentito da tutti quelli che affollano il teatro, e la vice-presidente Marta Cartabia la rassicura: «La Costituzione guarda ai diritti della persona in tutti i suoi aspetti, compresi quelli legati alla famiglia. E l’afflittività della pena non deve ripercuotersi sui familiari del detenuto».
La Corte, ricordano i giudici, non può fare nuove leggi, ma rimuovere ostacoli rappresentati da norme che non rispettano i principi fondamentali fissati dalla Carta del 1948; e nel tempo ha bocciato, riformato o cancellato leggi che non garantivano i diritti alla difesa, alla salute, all’istruzione, all’informazione, al lavoro. «La Costituzione e la Corte esistono in modo particolare per le persone detenute, perché sono più deboli», ricorda Lattanzi.
Roberto P. e Francesco P. chiedono se sia giusta l’interdizione perpetua dal diritto al voto a pena espiata, o la regola per cui i cittadini — compresi i reclusi — non possono rivolgersi direttamente alla Corte. «Sono problemi seri, che forse è giunto il momento di affrontare», risponde il giudice Giuliano Amato. Ma tocca prima al legislatore.
L’importante, conclude il presidente Lattanzi, è che la Costituzione non sia «imbalsamata». E che la Corte non si faccia influenzare da «sentimenti e umori che si agitano ed eventualmente dominano nel Paese»; altra affermazione dal significato particolare di fronte a tentazioni discriminatorie e spinte securitarie: «Le nostre direttrici sono nella Costituzione, e solo quelle dobbiamo seguire, per evitare scostamenti anche momentanei dai principi costituzionali».
Il presidente
Lattanzi: «No a influenze da sentimenti e umori che si agitano e dominano nel Paese»
La nostra Carta è una legge giusta mai nemica, ed è un indispensabile strumento contro abusi e prevaricazioni