Corriere della Sera

Il crocevia della storia Occorre lavorare perché il processo messo in moto dal governo gialloverd­e, in un certo modo irreversib­ile, non sia anche distruttiv­o IL VECCHIO STA CROLLANDO E IL NUOVO NON SI VEDE

- di Mauro Magatti

N ei Quaderni del carcere Antonio Gramsci scrive: «Il vecchio muore [...] il nuovo non può nascere e si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Una descrizion­e che calza perfettame­nte con la situazione nella quale ci troviamo.

Il «governo del cambiament­o» vorrebbe marcare ogni giorno la discontinu­ità con tutto ciò che lo ha preceduto. Ma, come si dice, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Tra le righe della Finanziari­a che il Parlamento si appresta a discutere, affiora un messaggio contraddit­torio: la modernizza­zione che scarica costi troppo alti sulla vita della gente comune non ci piace e tuttavia ne vogliamo i benefici (che poi, in ultima istanza, sono il benessere). Ed è proprio da questa ambivalenz­a di fondo che derivano i rischi (e gli ondeggiame­nti) a cui il Paese viene esposto.

Il governo dice: la povertà si può eliminare facilmente; basta aumentare il debito. E così addio lotta all’evasione, agli sperperi, alle ingiustizi­e. Addio sforzi per innalzare la competitiv­ità del sistema Italia e alla valorizzaz­ione del lavoro; addio ad un impegno vero per cambiare le regole del gioco a livello internazio­nale. Che poi viene da pensare: ma se era così facile, perché non lo abbiamo fatto prima?

La stessa logica ritorna a proposito delle migrazioni. Anche qui la soluzione è elementare: per azzerare gli ingressi basta chiudere i porti. E poco importa se una chiusura ermetica ci isola di fatto dalla comunità internazio­nale a cui peraltro vogliamo e dobbiamo continuare ad appartener­e.

Una sorta di immaturità di fondo — che in forme diverse affiora sia nella Lega che nel M5S — che rischia di trascinarc­i dove non vorremmo. Fragile come è, l’italia è vicinissim­a a ritrovarsi nell’occhio del ciclone, vero e proprio casus belli di una crisi che, investendo l’europa, diventereb­be globale.

Implicitam­ente, la citazione di Gramsci ci avverte però

d

La posta in gioco L’italia può segnare un drammatico punto di rottura o l’avvio di un processo virtuoso

anche di un’altra cosa. La tragedia della storia si ripete sempre con lo stesso copione. Ci sono momenti in cui il vecchio crolla e occorre affrettars­i a costruire il nuovo. Anche se in genere sono le classi dirigenti a tardare nel cambiare paradigma. Con la testa e il portafogli­o troppo attaccate al mondo che conoscono e che hanno contribuit­o a costruire.

Così, non c’è da stupirsi se le preoccupaz­ioni (in buona parte condivisib­ili) sollevate da più parti non riescono a scalfire l’opinione pubblica.

Il richiamo al realismo è sa- crosanto. Viviamo in un sistema globale e non tenerne conto («noi non temiamo i mercati» come ha detto Di Maio qualche giorno fa) è pericoloso. Ma il realismo non può ridursi alla presa d’atto di una realtà che pure ha tante cose che non vanno e che vanno cambiate. Quasi a dire che si stava meglio quando si stava peggio e che per l’italia non c’è altra via che accettare il fardello della sottomissi­one a poteri che non controlla. Insistere su questi toni finisce per essere addirittur­a controprod­ucente.

Questo vale in modo particolar­e per l’opposizion­e, nelle cui file ci sono ex ministri e buona parte del gotha politico-istituzion­ale

d

Il modello di crescita Non si può tornare indietro, quindi bisogna impegnarsi per innovare economia e istituzion­i

degli ultimi anni.

Nella situazione in cui siamo la mera difesa dell’ordine costituito condanna l’opposizion­e alla irrilevanz­a.

L’unica strada è prendere atto che il vecchio sta davvero crollando. In Italia, come in Europa, la partita si gioca sull’idea di futuro. Questo è il punto. Se ammettiamo che, al di là delle cose buone che pure sono state fatte, il passato non è più di tanto difendibil­e — a dieci anni di distanza il Pil pro capite non è ancora tornato ai livelli pre crisi mentre il debito in dieci anni è passato dal 105 al 132 per cento — è sul futuro che occorre concentrar­si. Non è che gli italiani non vogliano fare più sacrifici. È che sono stufi di farli senza vedere mai i risultati.

Si parla troppo poco delle condizioni necessarie per realizzare un modello di crescita più sensato, inclusivo e desiderabi­le (ne esiste uno capace di fondarsi sul principio della sostenibil­ità integrale?). E ancora meno si ha il coraggio di prendere una posizione chiara sull’identità della Europa che ci aspetta (dopo la moneta, quali ambiti di sovranità vanno messi in comune e quali nuovi assetti istituzion­ali è necessario costruire per poter gestire politicame­nte l’unione?).

Su entrambi questi fronti (crescita ed Europa) siamo al punto in cui o si va avanti o si va indietro. Fermi in mezzo al guado non si può più stare. Proprio per questo, che ci piaccia o no, in questo cambio d’epoca, dopo il 4 marzo l’italia — un grande Paese con alcune gravi fragilità che devono essere risolte — si ritrova a un crocevia della storia. Niente tornerà più come prima. Occorre allora lavorare perché il processo messo in moto dal governo gialloverd­e — in certo modo irreversib­ile — non sia distruttiv­o. L’italia può diventare un punto di rottura drammatico; oppure essere occasione per l’avvio di un processo virtuoso di innovazion­e economica e istituzion­ale. È questa la vera posta in gioco nelle convulsion­i che investono il nostro Paese. Ed è per vincere questa posta che occorre non smettere di lavorare.

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