Corriere della Sera

Ferrari divisa, Vettel sempre più confuso Le due fazioni di Arrivabene e Binotto Involuzion­e della Rossa, la crescita Mercedes

- Daniele Sparisci

Ad Austin fra due settimane Lewis Hamilton può trasformar­e il primo match-ball ottenuto con la facile vittoria a Suzuka, conquistar­e il suo quinto Mondiale ed eguagliare Juan Manuel Fangio. Magari per la Ferrari sarebbe meglio che finisse così, che senso avrebbe prolungare l’agonia?

Il Gp del Giappone segna il punto più basso della stagione, il punto di non ritorno. Come dodici mesi fa, sempre La spaccata a Oriente, si spengono le speranze di rimonta: ma se allora la ragione della disfatta era stata evidente (era venuta meno l’affidabili­tà nella volata finale del campionato) ora i motivi sono molto più complessi e le responsabi­lità distribuit­e. Sebastian Vettel ha aggiunto

 un altro orrore alla sua, ormai lunga, collezione personale distruggen­do una partenza fenomenale con un attacco Vettel scellerato su Max Il sorpasso Verstappen dopo l’uscita della

su Max? safety car. È la fotocopia degli incidenti a Monza e a Le Castellet In quel al via, è il sintomo della punto profonda inquietudi­ne di un si poteva quattro volte campione del passare mondo confuso e in crisi di fiducia.

altrimenti Il tedesco ha sprecato una marea di punti (gravissimo non ci avrei il testacoda a Hockenheim nemmeno mentre era in testa) quando provato la Rossa era la macchina migliore, ma è chiaro che anche lui, come tutti a Maranello, abbia risentito del clima agitato. C’è un’immagine che fotografa la brusca caduta del Cavallino: il nervosismo di Seb al sabato di Monza quando gli comunicano che Kimi (licenziato poche ore prima) ha fatto la pole. È il presentime­nto di guai in arrivo, e puntualmen­te arrivano nei primi metri della corsa vanificand­o una prima fila espugnata dopo 18 anni. Di lì in poi è franato tutto in un amen, per la Mercedes e il suo capitano britannico è stato uno scherzo disarmare un avversario già piuttosto fiacco.

Tutto ha origine nella tragedia di Sergio Marchionne. L’ex presidente era il custode

 Arrivabene Dopo i guai in qualifica i piloti hanno reagito bene e senza certi episodi potevamo andare a podio

degli equilibri interni, aveva disegnato una catena di comando «orizzontal­e» per evitare una struttura gerarchica «troppo ingessata», ma alla fine era lui a prendere le decisioni più importanti. E a parlare per tutti, soprattutt­o nelle riunioni «politiche» con i vertici della F1 dove faceva valere il suo peso.

Quando Marchionne è venuto a mancare improvvisa­mente, il meccanismo per un po’ ha retto (risale a fine agosto, a Spa, l’ultimo successo di Vettel) poi è imploso. Al di là delle smentite di rito, all’interno della Gestione sportiva si sono create due fazioni: una fa capo al team principal Maurizio Arrivabene, l’altra al direttore tecnico Mattia Binotto, ingegnere reggiano molto ascoltato da Marchionne. Si dice che i rapporti fra i due siano ai minimi storici, che il barometro segni bufera. Lo dimostrano le frecciate sugli errori strategici e sulle carenze tecniche della monoposto, parole con le quali il team principal ha voluto delimitare una linea di confine fra l’area tecnica e quella gestionale. I problemi non sono mancati nemmeno sul fronte degli aggiorname­nti: da Singapore c’è stata un’involuzion­e. Se la Mercedes è cresciuta moltissimo, la Ferrari è rimasta al palo o almeno non ha tenuto il passo della concorrenz­a. Ieri però a Suzuka andava bene, nonostante l’incidente di Seb.

Che si ritrovi l’armonia o che la «guerra di potere» peggiori è da vedere. Arrivabene conosce bene il nuovo a.d. Louis Camilleri (suo ex capo alla Philip Morris) ma non per questo pare godere di fiducia illimitata. Mentre il presidente e primo azionista della Ferrari, John Elkann, per ora resta in silenzio. Fino a quando?

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