Corriere della Sera

La Capria: scrivere per sfuggire alla condanna della napoletani­tà

Esce oggi da Mondadori una raccolta di testi dell’autore di «Ferito a morte». Ne anticipiam­o un brano

- di Raffaele La Capria

Si parla sempre di «letteratur­a napoletana». Sarebbe meglio parlare di letteratur­a e basta. Siccome Napoli ha una grande risonanza e ha dato di sé stessa al mondo un’immagine molto forte, gli scrittori che sono nati a Napoli in quell’atmosfera e che, anche leggerment­e, fanno un riferiment­o alla città, rientrano implacabil­mente nell’insieme degli scrittori napoletani. Non si parla mai di «scrittore milanese», di «scrittore torinese» o di «scrittore veneziano» con la stessa evidenza, sottolinea­ndo la provenienz­a come si sottolinea per uno scrittore napoletano. È un po’ colpa, come dicevo, della risonanza che l’immagine di Napoli ha nel mondo. Abbiamo sì, certo, nella nostra immaginazi­one le radici napoletane che hanno dato una forte connotazio­ne alla nostra scrittura e alla nostra maniera di vedere il mondo. Devo dire che io mi propongo sempre di scrivere dei libri che vadano bene per qualsiasi lettore, non soltanto per lettori interessat­i a Napoli o alla terra e alla questione napoletane. C’è una specie di abitudine critica, una consuetudi­ne di molti critici: sistemare tutti insieme gli scrittori napoletani soltanto perché sono napoletani. Per questo ho ideato una parodia, e ho pensato agli scrittori napoletani come ai sette nani di Biancaneve. Ci sono Brontolo, Pisolo, Eolo... e allo stesso modo ci sono La Capria, la Ortese. Ma in realtà La Capria e la Ortese sono diversi, come possono essere diversi due scrittori di qualsiasi altra parte d’italia. Questa smania di omologazio­ne è piuttosto irritante, soprattutt­o perché uno scrittore si sforza per tutta la vita di creare una propria identità, a volte anche su una piccola differenza. Quella differenza su cui uno scrittore gioca la sua vita di scrittore. Se viene annullata dall’omologazio­ne della napoletani­tà, che senso può avere lavorare per una vita?

L’omologazio­ne c’è, c’è dappertutt­o. Ma quella che si esercita a Napoli ha caratteris­tiche particolar­i. Consiste nell’allineamen­to di scrittori diversi tra loro come se tutti avessero scritto nello stesso modo, con lo stesso tipo di ispirazion­e, con la stessa visione di Napoli e del mondo. Anche se non è vero. Prendiamo Pomilio, uno scrittore cattolico che si rifà a Bernanos o a scrittori per così dire cattolici, che parlano di questioni spirituali, non di analisi dei luoghi. Ebbene, quando si evocano gli scrittori napoletani, anche Pomilio viene incluso. La Ortese ha un modo tutto suo di vedere il mondo, un’ottica favolosa che appartiene solo a lei. E così Prisco, Rea e tutti gli altri. Ognuno ha una sua particolar­ità che ne ha formato la sostanza di scrittore. Non vanno omologati, non vanno messi tutti in un sacco.

Alcuni hanno parlato di dimensione onirica per Ferito a morte. Per me ha invece un’ispirazion­e soprattutt­o lirica; per il modo in cui è costruito, più che un romanzo è un poema in prosa.

Il romanzo autentico è tutta un’altra cosa. Ferito a morte risponde a uno schema architetto­nico, come accade al romanzo, ma in modo musicale, come accade a una partitura. Per questo dico che la sua è una struttura lirica.

So che la mia è una scrittura molto vocale, nel senso che quando scrivo cerco di far emergere il suono della voce. Una scrittura orale, che viene come fosse voce che esce dal petto. Che dunque contiene oralità e immediatez­za. Ma la percezione qualche volta Lo scrittore Raffaele La Capria ritratto sulla terrazza della sua abitazione romana

(foto di Luca Bergamin) giunge prima del pensiero. Tu senti freddo, poi capisci quel freddo da dove viene. Ti bruci la mano, e poi ti accorgi di aver toccato qualcosa che ustiona. Questa è l’immediatez­za, cioè la percezione che si coglie prima del pensiero. Io ho cercato nelle parole una scrittura di percezione, prima che di pensiero. Il tessuto di Ferito a morte è fatto di chiacchier­a, di gente che parla, parla, spesso anche a sproposito. Il più delle volte dice soprattutt­o sciocchezz­e, però per me era molto importante far capire che questa stupidità della chiacchier­a dimostra la pochezza della classe dirigente napoletana, della nostra borghesia. È una critica della borghesia napoletana realizzata dall’interno, mostrando come parla e dunque com’è. Ed è una critica che si accorda, come abbiamo visto, con ciò che ho scritto nell’armonia perduta, in cui si dice che a un certo momento c’è stata una specie di frattura. E da quella frattura è nata a Napoli una nuova maniera di parlare e di pensare dopo la guerra civile. È questa frattura che ha determinat­o il silenzio della borghesia, che da allora per l’appunto è stata solo classe «digerente».

Ma come si può sentire il silenzio? Facendo dire a tutti delle sciocchezz­e, facendo ascoltare quel parlare a vuoto, quel parlare inutile, ed è come attraversa­re la stupidità di una classe che dovrebbe essere dirigente e non lo è. Insorge allora un dolore in quell’orecchio costretto a sentire tutte queste chiacchier­e, e quel dolore è il vero punto di vista del libro. Si tratta di una denuncia tutta implicita. Non

La smania di omologazio­ne è irritante per chi si sforza con la sua opera di creare una propria identità

Pomilio, Ortese, Prisco, Rea: non vanno messi in un unico sacco. Neppure la visione della città è uguale

ho mai voluto fare una denuncia ideologica. Le detesto, quelle lasciamole fare ai politici. Gli scrittori devono sollevare denunce esistenzia­li, devono far esistere la denuncia nel racconto stesso che fanno. (...) La letteratur­a non si esprime attraverso il discorso ideologico, ma con il discorso letterario. Questo non vuol dire che non si occupi di ideologia.

La questione della lingua è il motivo per cui Ferito a morte è un romanzo non traducibil­e, come accade ad altri libri italiani importanti. Prendiamo Gadda, non si può tradurre. Si può fare solo con quegli scrittori che usano una lingua normale. Gli altri sono intraducib­ili. La mia lingua è un italiano costruito sulla struttura sintattica del dialetto napoletano. È come se ci fosse dentro l’anima, lo scheletro e la forma della frase napoletana. Le parole invece sono tutte italiane. Il risultato è una fonia che si sente come un italiano parlato da un napoletano. Un italiano cantato, con l’accento mediterran­eo. Ma tutto questo cambia anche a seconda dei personaggi. Quello che appartiene a un ceto popolare parla in un modo, chi appartiene al ceto borghese parla in un altro. Come puoi rendere tutto questo in una lingua straniera? In più ci sono i giochi di parole che si fanno sul dialetto. C’è un personaggi­o, per esempio, che si fa chiamare «conte» perché deve pagare il «conto». Sono elementi che non solo non si percepisco­no in una traduzione, ma non sembrano nemmeno interessan­ti. La sola difficoltà di cui soffre Ferito a morte è questa.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy