Satira sui valori svenduti Il drammaturgo indignato che Shakespeare stimava
Middleton scriveva tragedie per la compagnia del Bardo La biografa: «Il finale di Amleto a confronto è moderato»
C i sono voluti quattro secoli ma alla fine il Vendicatore è stato vendicato. Testo teatrale senza nome nè legge, maledetto dalla censura per la sua carica eversiva contro il potere, schivato dai teatri per l’inaudita violenza, The Revenger’s Tragedy ha avuto vita travagliata in scena come nei cataloghi letterari. Pubblicato anonimo nel 1606, attribuito nel 1650 al drammaturgo Cyril Tourneur, solo di recente, una ventina d’anni fa, ha ritrovato grazie a nuove ricerche il vero padre in Thomas Middleton. Agnizione letteraria di non poco conto vista la fama sulfurea dell’autore, nato nel 1580 a Londra, 16 anni dopo Shakespeare, vita difficile da orfano, talento precoce da pecora nera, che a 18 anni vede mandare al rogo un suo poema, reo di attacco all’autorità ecclesiastica.
Ma Middleton non è tipo da farsi intimorire. «La sua forza satirica e abilità narrativa danno vita a una serie di pièce di grande successo e scandalo tra il 1603 e il 1624, ossia tutto l’arco di regno di Giacomo I», ricorda Daniela Guardamagna, ordinario di Letteratura Inglese all’università Tor Vergata di Roma, autrice del saggio Thomas Middleton autore giacominiano (Carocci editore).
Dove si traccia il ritratto di un personaggio singolare come i suoi scritti, apprezzato dal pubblico per le sue denunce sulla corruzione, stimato da Shakespeare che certo conosceva La Tragedia del vendicatore, scritta da Middleton nel 1606 per i King’s Men, la compagnia di cui il Bardo era il drammaturgo stabile. «E deve averla apprezzata, visto che l’anno successivo lo invita a scrivere con lui il Timone d’atene, testo sul denaro e la mercificazione dei valori quanto mai congeniale allo spirito sferzante di Middleton. Che da free lance collaborava con diverse compagnie, ma non esistendo ai tempi il diritto d’autore, i suoi testi, una volta consegnati, diventavano proprietà dei teatri e nel mucchio le attribuzioni spesso si confondevano».
Così nel 1970, quando Luca Ronconi scopre il Vendicatore e lo mette in scena con una compagnia di sole donne tra cui Mariangela Melato, Edmonda Aldini, Ottavia Piccolo, Paola Gassman, la firma è ancora di Tourneur. Per dare a Middleton quel che è di Middleton si è dovuto attendere la fine del ‘900. «La più dissacrante e raccapricciante tragedia del teatro della crudeltà elisabettiano è proprio sua – assicura Guardamagna –. La vendetta allora era un genere in voga, Shakespeare prima l’aveva affrontato in Amleto, dove però la strage finale è nulla a confronto con il regolamento di conti di Vindice».
Che per punire l’uccisione della donna amata per mano di un infame Duca italiano, furibondo perché lei non voleva cedergli, lo ripaga invischiandolo in un piano perverso. Riesuma il teschio della poveretta, ne cosparge di veleno la bocca, lo ricopre con veli, lo sistema nel buio di un’alcova, quale esca per attirare il seduttore In basso, Daniela Guardamagna carni stavolta è un’adultera. «Un gran guignol necrofilo che ritroviamo anche nel Tito Andronico di Shakespeare. Il togliere dignità alla morte, il giocarci in modo grottesco come Amleto fa con il teschio di Yorick, sono tratti comuni al teatro dell’epoca. Così feroce e diretto che a confronto il pulp di Tarantino o di Greenaway fa sorridere».
La cupa visione del Vendicatore ci incalza. «All’inizio il pubblico è con lui, ma poi via via si rende conto dell’orrore del farsi giustizia da sé. La tentazione di arrogarsi il diritto di vita e di morte oggi è purtroppo attuale. Il monito di Vindice ci invita a riflettere».
La cupa visione del Vendicatore fa riflettere sul farsi giustizia da sé