L’oro del derby
Icardi e Higuain: in comune il numero 9, il senso del gol e Milano Poi soltanto differenze: nell’argentina sono il nuovo che avanza e il vecchio che non vuole tramontare
Loro, l’oro di Milano. Maurito e Gonzalo, Icardi e Higuain, il nerazzurro e il rossonero, il giustiziere dell’area e il regista d’attacco, l’implacabile e l’eclettico. Così uguali, così diversi. Soprattutto così diversi. Per età, attitudini, origini, ispirazioni, prospettive. Perché la verità è che quei due in comune hanno solo tre cose: il numero 9, il gol, Milano. Il ruolo, la feroce risolutezza davanti alla porta, l’attuale domicilio professionale e quindi il fatto che il giorno 21 saranno di fronte per un derby carico di aspettative, un incrocio ad altissima tensione come non se ne vedevano da un pezzo. Un derby vero, con vista sulla Champions e su un futuro migliore, o forse sarebbe meglio dire su un passato migliore. Diciamolo: stavolta non c’è nemmeno bisogno di impacchettarlo bene questo derby, niente nastrini né bigliettini, basta il contenuto, basta la sostanza. Inter terza a 16 punti, Milan in crescita costante e potenzialmente quarto, se non fallisce il recupero col Genoa del 31. Insomma: Milano che fatica, ma finalmente, piano piano, rieccoti.
Ce ne sarebbe forse una quarta di affinità, musicale, che non è ovviamente il tango, visto che sarebbe come se qui un ragazzo di vent’anni su Spotify mettesse Beniamino Gigli: improbabile. Tutti e due, Maurito e il Pipita, nel classico tragitto hotel-stadio si ascoltano regolarmente un bel reggaeton carico, come però ormai la metà dei calciatori, italiani inclusi. E anche parlare di origine comune è fuorviante, limitativo.
Fai presto a parlare di Argentina: Mauro viene da Sarratea, un quartiere popolare a Nord di Rosario, i suoi emigrarono alle Canarie per sfuggire alla crisi del 2002, lui un giorno alla Gazzetta ha raccontato che da bambino tirava agli uccelli con la fionda «così a casa mangiavamo qualcosa». Gonzalo è figlio di un calciatore e di una pittrice, è venuto grande fra il circolo del tennis e le scuole più rinomate del centro chic di Buenos Aires, fra Núñez e Palermo. Quelli del Newell’s, la squadra di cui Mauro è tifoso e nella quale un giorno vorrebbe chiudere la carriera, sono soprannominati i «Lebbrosi». A dieci anni il Pipita è entrato nell’accademia di quelli del River, los Millonarios. Non c’è bisogno di tradurre. La distanza chilometrica delle loro origini è meno di 300 chilometri. Ma trovateli, due posti più distanti.
Anche sul campo le differenze sono evidenti, sostanziali, indiscutibili. Non tanto nei numeri (5 gol in 8 presenze stagionali, 3 in 6 in campionato per l’interista; 6 in 7 partite complessive, 4 in 5 in A per il milanista) quanto nell’interpretazione del ruolo, del gioco, della missione. Icardi è e resta un finalizzatore puro, ogni maledetta domenica è un duello vita o morte fra lui e il portiere. Oggi qualcuno glielo rinfaccia, quasi fosse un difetto, ma chi non lo vorrebbe un centravanti così? Il Pipita, non tutti lo sanno, nasce trequartista. Ecco perché quando la palla non arriva se la va a prendere. E se occorre, come contro la Roma, è lui a dare il passaggio.
La questione è anche generazionale, in mezzo in effetti ci sono cinque anni: l’interista è del 1993, il milanista del 1987. Tanti? Pochi? Di sicuro abbastanza per avere modelli differenti. Mauro è geometrico e spietato, sembra uscito dalla Playstation. Gonzalo pare arrivare da un calcio che ha ancora qualcosa di antico, artigianale. Ed è infatti anche dentro a quei cinque anni e a quel duello che li vedrà di fronte fra tredici giorni che si gioca la sfida nella sfida, la corsa alla maglia numero 9 della Selección argentina.
Oggi Icardi è davanti, è lui il prescelto per il nuovo corso del c.t. Scaloni che ha come obiettivo cancellare, o almeno provarci, i troppi fallimenti della disgraziata generazione d’oro di cui uno dei simboli, suo malgrado, è proprio Gonzalo. Il nuovo che vuole avanzare contro il classico che non intende tramontare. Quando dicono che il derby non è una partita come le altre, questo s’intende. Che dietro c’è spesso, o forse sempre, anche una questione maledettamente privata.