Luci d’oriente e d’occidente Quattro pittori tra Italia e Cina
Fino al 15 ottobre in mostra le tele di Ruggero Savinio, Giuseppe Modica, Tang Yongli e Zhang Yidan
Europa e Asia Orientale alla 14ª edizione della «Giornata del contemporaneo». Due pittori italiani — Ruggero Savinio e Giuseppe Modica — ed altrettanti cinesi — Tang Yongli e Zhang Yidan — espongono alla Galleria nazionale di Pechino una ventina di lavori ciascuno, nella rassegna curata da Giorgio Agamben e Zhang Xiaolin. Che cos’hanno in comune i quattro artisti? Il titolo è esplicativo: La luce ricorda. La luce che si fa corpo. «Il cielo è la prima creazione della luce — nota il filosofo nel saggio introduttivo —. Se la luce, in questo senso, è ciò in cui forma e materia coincidono in un corpo, allora si comprende perché la luce sia per eccellenza il luogo e il medio della pittura. Per chi dipinge, la luce non è soltanto qualcosa che illumina e rende visibili i corpi: è essa stessa a plasmarli, a farli esistere e a renderli conoscibili».
Ed ecco Ruggero Savinio (figlio di Alberto e nipote di de Chirico: il refrain è d’obbligo) con primavera a Burano, bagnanti con le mani riunite, interni con dèi e coppia sul divano, interni con figure, paesaggi, e così via. Colori intensi, impasti che hanno qualcosa di sontuoso, sapientemente amalgamati. S’è già detto: Savinio si riappropria della corposità e la robustezza della materia. Quadri come visioni. Il passato avanza scomposto, sezionato, filtrato, prima; dissolto nel suo enigma, poi. Figure appena accennate, intuite quasi, si fondono con l’ambiente circostante. Dove posa lo sguardo, l’artista? Sull’ultimo Tiziano , ma anche su Turner, su Von Marées, su Bonnard, su Vuillard, su Lorrain, «artisti che sembrano in procinto di smarrire la figura e la trattengono come sull’orlo di un abisso». I personaggi? Occorre fissarli per un po’ prima che le figure ti vengano addosso. Come il padre e lo zio, Savinio è anche scrittore. Nell’età dell’oro (1981) annota: «A occhi socchiusi contemplo, sulla tela, i fantasmi dei corpi emergenti dal pulviscolo indistinto del fondo colorato. Man mano che guardo, le figure perdono di evidenza, finché svaniscono nel fondo dei colori. Fra le palpebre schiuse, vedo un dorato crepuscolo, una luce viva e trionfante, come in un dipinto di William Turner o di Lorrain».
Memoria, sogno. Ma che cosa ha Ruggero in comune con Alberto Savinio e Giorgio de Chirico? Probabilmente solo il riverbero che gli cade addosso. Per il resto, la strada intrapresa è completamente sua, così come sono suoi i giochi di luci (i blu-mare, i bianco-blu-grigio pettinato, gli impasti bianchi screziati di rosa, di nero e di rosso-ocra). Realtà? Filtrata, però: «Molta arte nasce dall’arte, così come molta letteratura nasce da altra letteratura: si tratta di uno scambio importante, fertile e continuo», ha spiegato Savinio.
Di memoria e sogno è intrisa anche la tavolozza di Giuseppe Modica, architetto, pittore di un mare che dalla Sicilia, sotto forma di nubi, inonda la Roma del Colosseo, dell’arco di Costantino, come se evaporasse. Costruzioni dipinte, paesaggi rarefatti con un aspetto granitico, talvolta, che fa pensare alle città o ai paesaggi irreali di un architetto-pittore come Fabrizio Clerici e, in parte, anche del belga René Magritte.
Sul piano barocco e surreale, invece, un nome da accostare a Modica è quello di Alberto Savinio. Anche per l’aspetto narrativo. Ogni dipinto dell’artista siciliano stimola un racconto, un’invenzione; come dire?, una divagazione letteraria. Basterebbe fare l’esempio di Leonardo Sciascia o di Antonio Tabucchi che, nel 1993, per accompagnare una cartella di tre incisioni di Modica, edita da Sciardelli, scrisse il racconto Le vacanze di Bernardo Soares. Il mare, ma anche gli specchi: numerosi, ossessivi, che riflettono persino la memoria. L’artista fa rivivere la sua isola con apparizioni, frammenti, stupori, incanti. Che crescono e vanno dritti al cuore.
E Tang Yongli? Per Agamben, medita su «una luce senz’ombra […] cercando di restituire alla figura umana un peso e un realismo che mancano nella tradizione cinese». E cosa incredibile: nei suoi ritratti affiora un’ombra che non proviene da alcuna luce. Ma, si chiede il filosofo, questo corrisponde «alla nebbia degli antichi paesaggi, che questi protagonisti della Cina moderna fanno emergere dalla bruma e dal buio non della natura, ma della storia?».
Tradizione della pittura di paesaggio in Zhang Yidan, come se «i suoi inchiostri fossero frammenti di un rotolo delle Cinque dinastie o dell’epoca Song. In ognuna di queste forme compare la nebbia, con la sua luce senz’ombra e i tetti che affiorano appena» da qualcosa di lattiginoso. Parola di Agamben.
Le ascendenze Figlio di Alberto e nipote di de Chirico, Savinio intraprende una strada propria