«Ho vissuto un inferno Provo rabbia»
Si può rinascere anche sotto una pioggia battente: «Da ore faccio su e giù davanti al portone di casa per smaltire la rabbia che ho in corpo», dice Nicola Minichini, agente della penitenziaria, imputato di lesioni aggravate al primo processo Cucchi, prosciolto in Cassazione nel 2015 assieme ad altri due suoi colleghi, inizialmente ritenuti responsabili della morte del ragazzo. Ora è parte civile al procedimento bis e dunque era in aula quando il pm ha reso noti i riscontri sui carabinieri. Lui, Minichini, la chiama «resurrezione». E dice che «tutto questo si poteva evitare». Vuole raccontarlo? «Un giorno, poco dopo che il mio nome era stato sbattuto su tutti i giornali ed era finito sui telegiornali, torno al mio paese d’origine, in provincia di Napoli, dove vive anche mia madre. Le mura sono tappezzate con manifesti che annunciano il mio funerale “Oggi Nicola Minichini è deceduto, eccetera”. Tirava un’aria da impiccagione sommaria». L’agente va avanti: «Sapete cosa vuol dire spiegare a un ragazzo di 13 anni e a uno di 16, i miei figli, che il loro padre non è un assassino? Io ho dovuto farlo». Anche allora, dice, si trovava a vagare per strada con la rabbia dentro ma perché, spiega, aveva paura dei giornalisti sotto casa. Non è fuori luogo, spiega, parlare di processo «a un’intera famiglia». Eppure c’è spazio anche per un grazie: «Devo ringraziare il mio dirigente dell’epoca e il direttore dell’ufficio provveditore: non mi sospesero, mi invitarono ad avere fiducia. È così che ho potuto pagare il mutuo». Un pensiero per Cucchi? «Compassione. A ogni udienza io e Ilaria Cucchi ci siamo stretti la mano».