A lezione di Salvimaio
Gli studenti bruciano in piazza i manichini di Salvini e Di Maio nella prima vera contestazione popolare al governo degli applausi. Eppure la reazione dei due interessati è diametralmente opposta. Salvini ricorre al classico armamentario dialettico della destra: i contestatori non sono studenti in polemica con i tagli alla scuola, ma rimasugli di un Sessantotto duro a morire, gentaglia dei centri sociali sobillata ex cathedra da qualche cattivo maestro. Invece Di Maio concede a chi lo ha bruciato in effigie il privilegio di un sorriso a tutta gengiva. Fa il comprensivo. Il «buonista», direbbe lui, se a farlo fosse qualcun altro. Benedice la protesta e spalanca ai ragazzi le porte del Palazzo, allo scopo di riscrivere insieme (per la centoduesima volta in mezzo secolo) le regole della scuola.
A forza di ripetere che i due Pop & Folk erano la stessa cosa, ci eravamo dimenticati di quanto fossero diversi. Hanno gli stessi nemici e, se a bruciare i loro manichini fosse stato un commissario di Bruxelles, c’è da scommettere che lo avrebbero spernacchiato in stereofonia. Ma non hanno gli stessi amici. Per Salvini gli studenti che protestano in piazza sono sovversivi irredimibili. Per Di Maio sono i suoi elettori: li blandisce nel terrore di perderli. L’alleanza gialloverde è pura tattica. Di strategico c’è l’obiettivo comune di spolpare gli altri partiti per spartirsi nei prossimi vent’anni i due ruoli in commedia: governo e opposizione.