Il braccio di ferro su Cdp L’ira del professore (in bilico)
E i 5 Stelle puntano il dito su una consigliera dell’economia
ROMA Lo scontro fra il ministro dell’economia e i 5 Stelle su Alitalia, con Giovanni Tria che ha rivendicato le sue prerogative rispetto al Movimento che vorrebbe un intervento pubblico nel capitale della compagnia, è esploso ieri pubblicamente, ma covava da mesi. Ed è solo uno dei capitoli che ha visto su fronti contrapposti Giovanni Tria e la sua struttura e il partito guidato dal vicepremier Luigi Di Maio. A ben vedere il duello comincia con le nomine dei vertici della Cassa depositi e prestiti (Cdp), il braccio finanziario del ministero dell’economia. Era la metà di luglio quando Tria, che voleva alla guida della Cdp, Dario Scannapieco, vicepresidente della Bei (Banca europea degli investimenti), dovette invece ripiegare su Fabrizio Palermo, sostenuto dai 5 Stelle, pur di ottenere la nomina di Alessandro Rivera a direttore generale del Tesoro.
L’impegno messo da Di Maio nella partita delle nomine, anche in quelle che sarebbero di esclusiva competenza del ministro dell’economia, è funzionale a un disegno politico. Il capo dei 5 Stelle e con lui tutto il vertice del Movimento, fin dal primo giorno di costituzione del «governo del cambiamento», hanno due pensieri fissi. Il primo è che i vertici tecnici del Tesoro remino contro. Pensiero poi volgarmente esplicitato dal portavoce Rocco Casalino quando, in un colloquio riservato con alcuni giornalisti, ha insultato i tecnocrati del Mef e minacciato un repulisti. Il secondo pensiero fisso è che la Cassa depositi e prestiti debba avere un ruolo molto più interventista che in passato a supporto dei vari progetti di nazionalizzazione che questo governo non ha remore ad avanzare.
Entrambe queste convinzioni del Movimento 5 Stelle si alimentano dello scontro su Alitalia. Ieri, non a caso, in ambienti grillini, si sosteneva che dietro la forte irritazione di Tria («delle cose che fa il Tesoro deve parlare il ministro dell’economia») ci fosse Claudia Bugno, già vice president Public Affairs della stessa Alitalia dal novembre 2015 al marzo scorso, prima che Tria la chiamasse fra i suoi consiglieri (cinque in tutto). Bugno che, agli occhi dei 5 Stelle, ha anche l’aggravante di aver fatto parte del consiglio di amministrazione di Banca Etruria. Quanto al ruolo di Cassa depositi e prestiti, che dovrebbe sostenere finanziariamente la nuova Alitalia — nella quale entrerebbero il Mef (convertendo il prestito ponte in azioni) e le Ferrovie con una partecipazione di minoranza — i 5 Stelle danno per fatto quello che appunto per Tria è tutto da verificare. Tanto più che, le Fondazioni bancarie, azioniste col 16% della stessa Cassa, sono assolutamente contrarie ad ogni coinvolgimento nel salvataggio di Alitalia.
Quel che è certo è che Tria, ieri a Bali in Indonesia per la riunione del Fondo monetario internazionale, ha vissuto la sortita di Di Maio su Alitalia come un blitz consumato alle sue spalle, senza neppure il garbo istituzionale che dovrebbe esserci tra colleghi di governo. Lo stesso che era mancato in occasione del consiglio dei ministri che il 27 settembre varò la Nota al Def, con Di Maio e i ministri grillini che esultarono dal balcone di Palazzo Chigi, a riunione ancora in corso, per la «vittoria» sul ministro dell’economia, al quale avevano fatto ingoiare un deficit 2019 del 2,4%. Ora Tria dovrà digerire anche il rospo Alitalia, secondo i vertici dei 5 Stelle che, sorridendo, parafrasano Stalin sul Papa: «Ma quante divisioni ha Tria?». Solo che il tecnico Tria non sorride affatto. Ci vorrà un chiarimento. 5 Stelle e Lega sostengono che non vogliono le sue dimissioni. Ma se continua così...