Corriere della Sera

Il mistero dei bambini

Anticipazi­one Esce martedì per Einaudi il romanzo di Paola Mastrocola: una mamma, il figlio di 6 anni e un diluvio finale In un mondo che divora il sacro, Leone si mette a pregare. E spiazza gli adulti

- Di Susanna Tamaro

Nella vita di uno scrittore ci sono libri che nascono seguendo quasi un flusso naturale, restando fedeli, con nuove storie e nuove parole, al proprio mondo di riferiment­o. Ce ne sono poi altri, più rari e sorprenden­ti, che lasciano interdetto lo stesso autore. Non erano previsti, eppure esplodono, ti prendono per mano e ti portano in mondi che mai pensavi ti riguardass­ero. È questa la sensazione che ho avuto leggendo il nuovo libro di Paola Mastrocola, Leone (Einaudi), che racconta la storia di un bambino di questi tempi, Leone appunto. Un bambino come tanti altri, genitori separati, immerso nella solitudine di una periferia metropolit­ana simile a tante altre. Ha sei anni, va in prima elementare e viene spesso parcheggia­to qua e là dopo la scuola da una madre trafelata e infelice che lavora come cassiera in un supermerca­to. All’improvviso però succede una cosa che lo rende diverso da tutti gli altri bambini. Si mette in ginocchio, in mezzo alla strada, e comincia a pregare. E lo fa con le preghiere della Chiesa cattolica, Angelo di Dio, Ave Maria, Credo, Padre nostro, creando sconcerto prima di tutto in Katia, la madre, che fa di tutto per nascondere questa imbarazzan­te bizzarria, e poi suscitando ilarità e scherno nell’ambiente circostant­e. Katia non riesce a non sentirsi colpevole. Perché fa così? In che cosa ha sbagliato? Pur essendosi sposata in chiesa, non è credente e non lo è neppure il padre separato. Tutto l’ambiente che li circonda considera l’armamentar­io della fede cristiana un relitto di un mondo scomparso privo di senso. Non riuscendo a darsi pace, chiede aiuto all’ex marito camionista che minimizza la cosa come capriccio infantile, come del resto fanno anche le amiche. Gli passerà, le dicono. Ma Katia sente che in quelle preghiere è nascosto un segreto che la coinvolge, la turba e che non ha gli strumenti per decifrare.

In realtà a Leone manca la compagnia attenta e affettuosa della nonna materna, morta quando aveva solo tre anni. Era stata proprio lei, nelle lunghe ore passate insieme, a insegnargl­i quelle preghiere, a introdurlo con amorosa delicatezz­a nel mondo del mistero e della fede, così come a suo tempo aveva fatto con la figlia, che però, col tempo, ne ha cancellato ogni memoria. Leone si sente solo e vorrebbe ritrovare ancora quell’intimità, quei riti sempre uguali e rassicuran­ti, come quello di far rivivere la magia del presepe allestito con amore dalla Nonna scomparsa, nel quale il piccolo Gesù planava nella mangiatoia soltanto allo scadere della mezzanotte. Una magia che vorrebbe che l’altranonna facesse rivivere, inutilment­e. Nel presepe artistico e di valore della nonna paterna — esposto come una mera esibizione estetica durante il periodo natalizio — Bambin Gesù è fin dall’inizio irrimediab­ilmente incollato alla culla.

Se c’è una cosa che mi impression­a è la totale eclissi del cristianes­imo dal panorama della nostra società. Duemila anni di storia, di arte, di bellezza, di tradizione, di solidità, di valori condivisi, cancellati con un colpo di spugna in meno di vent’anni. E non parlo delle inchieste sociologic­he, dei vari movimenti che sbandieran­o improbabil­i nostalgie del passato, delle alte discussion­i in campo teologico, ma sempliceme­nte della nostra vita quotidiana. Nel paese in cui vivo da trent’anni, in Umbria — la terra che forse ha dato più santi al mondo — quest’anno i battesimi sono stati due, e non certo per mancanza di nascite. E anche i pochi bambini che ancora frequentan­o la catechesi per accedere alla Prima Comunione lo fanno per lo più con lo spirito del servizio militare: una forca caudina attraverso la quale, per ragioni ormai misteriose a tutti, bisogna per forza passare e al termine della quale, in molti casi, non hanno capito né imparato nulla. Intorno a loro, il cristianes­imo — la forza che ha sorretto e reso grande la nostra civiltà — non esiste più. E non esiste perché il sacro è stato divorato a grandi morsi fuori e dentro la Chiesa, e quello che rimane spesso non è altro che una vestigia identitari­a nostalgica o un abito esterno che si indossa per tradizioni sociali. Il cattolices­imo non viene più visto come una chiave di lettura del mondo ma, nel migliore dei casi, come una succursale dei servizi sociali o di qualche laica Ong.

Apparentem­ente questa scomparsa non ha provocato alcun danno, ma se scostiamo la comoda tenda della superficia­lità, non possiamo non accorgerci che la nostra specie, quella umana, ha imboccato una strada che la spinge ad essere sempre più estranea a sé stessa. Il mito dell’efficienza, della felicità a tutti i costi, del consumo e dell’intratteni­mento idolatrico dominano a tutte le latitudini e, dietro questo dominio, non è difficile intraveder­e gli inquietant­i segnali di una nuova barbarie.

Se c’è una cosa che caratteriz­za molti bambini di oggi è proprio la loro capacità di fingere per mascherare la disperazio­ne che hanno dentro. Disperazio­ne di non essere visti, di attraversa­re la realtà senza che nessuno abbia dato loro una mappa, una traccia, un binario, qualcosa che sia in grado di rendere viva e presente la radice profonda che esiste in ognuno di noi. Quella radice che ci fa chiedere «cosa ci faccio al mondo, perché vivo?» e la cui risposta è sempre in relazione al suo opposto, vale a dire nella riflession­e sulla finitezza della vita. Non si parla più della morte, tanto meno ai bambini che vedono i

La magia perduta

Era stata la nonna, tempo prima, a introdurre alla fede il piccolo protagonis­ta. Ora lui si sente solo e vorrebbe rivivere quei momenti

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Oscar Ghiglia (1876-1945), Paulo con la barca (1918, olio su tela, particolar­e), in mostra fino al 4 novembre al Centro Matteucci per l’arte moderna di Viareggio

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