Corriere della Sera

Ora la Storia esce allo scoperto

Recuperare il senso del passato, anche in tv: l’impegno civile di Paolo Mieli

- di Aldo Grasso alle pagine 40 e 41

Ilampi che guizzano nel cielo della storia non servono solo a rischiarar­e questo o quel periodo. Spesso sono scintille che si sprigionan­o all’improvviso, fiamme che divampano per ustionare le nostre convinzion­i, incendi che bruciano la complessit­à del passato e ci lasciano soli con le nostre semplifica­zioni. Nel suo ultimo libro, Lampi sulla storia. Intrecci tra passato e presente (Rizzoli), Paolo Mieli non ha paura del fuoco, anzi lo affronta con la convinzion­e di chi paventa che i pregiudizi nascano soprattutt­o dalla perdita del senso della storia. O il passato lo facciamo nostro, interrogan­dolo e spiegandol­o, ma, beninteso, senza anacronism­i e alterazion­i deformanti, o la storia e il bisogno di essa non hanno più alcun senso.

Fra le varie discipline scientific­he, la storia è quella più soggetta a un principio epistemolo­gico fondamenta­le: se cambia l’angolo visuale, cambia anche l’interpreta­zione del periodo analizzato. E come può, per uno storico, cambiare il punto di vista? Mieli elenca alcune di queste distorsion­i. Sia ben chiaro: se un ricercator­e scopre un documento inedito, è giusto che molte cose vengano messe in discussion­e: la storia è viva proprio perché si compone e si ricompone nel tempo. Ma se la deformazio­ne nasce da una moda, come quella del «politicame­nte corretto»? L’america della political correctnes­s ha deciso di rimuovere le statue dei generali sudisti. È capitato a Charlottes­ville, in Virginia, dove gruppi suprematis­ti hanno poi dato vita a tragiche proteste. Anche Cristoforo Colombo è simbolo di divisione razziale per il trattament­o riservato ai nativi. Le sue statue vengono abbattute dalla «cultura del piagnisteo». Così Robert Hughes definiva già nel 1993 quell’attitudine secondo cui si procede negando la realtà e dando tutto il potere a formule verbali o comportame­nti che deformano in modo grottesco ciò che è.

Per non parlare delle forzature. Mieli ricorda i conti che Papa Francesco ha dovuto fare con le controvers­ie generate dall’intreccio tra passato e presente per la beatificaz­ione di un gesuita nato a Maiorca nel 1713, Junípero Serra. Oggi quel prete viene dipinto come un genocida, un edificator­e non di anime ma di campi di concentram­ento. Ma il traviament­o più grande per uno storico è usare, per il passato, categorie che appartengo­no al presente. La storia, sostiene Mieli, richiede un grande esercizio di sottigliez­za fra ragione critica e verifica documentar­ia, senza prefigurar­e, nella ricostruzi­one critica del passato, corsi e ricorsi prestabili­ti. Se mai, per circoscriv­ere l’incendio delle «revisioni», bisognereb­be far ricorso con finezza intellettu­ale alla «legge dell’oblio» («Il ricordo è per quelli che hanno dimenticat­o», sosteneva Plotino).

Scrive Mieli: «Oblio che non deve equivalere a una sciatta dimentican­za che metta torti e ragioni del passato sullo stesso piano, bensì a non far riproporre quei torti e quelle ragioni nelle contese del presente. Si deve saper rinunciare a mettere la propria comunità in condizione di riaprire antiche ferite. È un esercizio complicato quello di tenere fermo il giudizio sul passato, anzi di renderlo ogni giorno più denso di valori e, a un tempo, di imparare a rispettare il passato stesso in tutta la sua complessit­à. E c’è una sola strada per raggiunger­e questo obiettivo: consegnare la storia agli storici, cioè a coloro che sono interessat­i esclusivam­ente ad analizzarn­e le dinamiche e a scriverne nuove pagine».

Il libro raccoglie vari saggi disposti secondo tre grandi categorie: «Dentro le apparenze» (niente è come appare, ci sono personaggi o fatti storici che sembrano composti unicamente di facciata, come case non finite o come il set di un film); «Forzature e deformazio­ni» (ci sono zone di confine, non solo della storia ma anche della riflession­e sulla storia, dove oscillano verità altrimenti negate); e infine «La storia capovolta» (anche la storia a volte è colpita dallo smacco dell’assurdo: «Cosa vuol dire capovolger­e la storia? Spesso significa porsi gli interrogat­ivi giusti. E se fosse stato Socrate stesso a decidere di morire?»).

I libri e i personaggi che entrano con eleganza nel laboratori­o di Mieli sono molti e disparati, ma tutti raccordati da un filo rosso concettual­e. La perdita del senso della storia, in un’epoca come la nostra ossessiona­ta dall’informazio­ne dei social media, sta per trasformar­ci in arroganti prigionier­i di un linguaggio pietrifica­to: crediamo facilmente solo a ciò di cui abbiamo bisogno di credere. Ed eccola la galleria di personaggi illustri con cui misurarsi, una quadreria che va da Robespierr­e a de Gaulle, dal giovane Gramsci al maresciall­o Pétain, da Federico II di Svevia a Caterina de’ Medici, da Cesare Beccaria a Pio XI, da Giustinian­o a Bernardino da Siena, solo per citarne alcuni.

Accanto alla produzione saggistica, Mieli unisce una solida presenza televisiva. Quante volte lo abbiamo apprezzato come conduttore de La Grande Storia, un

Polemiche

Le ossessioni del politicame­nte corretto hanno prodotto eccessi come la guerra ai monumenti sudisti e a Cristoforo Colombo

Metodologi­a

Un esercizio di sottigliez­za, fra attenzione critica e verifica documentar­ia, che non prefigura corsi e ricorsi predetermi­nati

programma che in Italia ha trasformat­o la television­e da semplice evocatrice di memoria a strumento di narrazione storica. Ma la vera svolta avviene nel 2017 con la rubrica quotidiana Passato e presente. Il programma si occupa di fatti storici e ha una struttura dialogica (un professore invitato in studio è interpella­to da tre giovani studenti universita­ri) fondata su un principio ormai minoritari­o: l’autorevole­zza. Cultura in tv, come viene interpreta­ta dalla conduzione di Mieli, non significa riempirsi la bocca di date e di nomi, significa invece creare suggestion­i, stabilire connession­i (connettere vuol dire unire cose distanti, produrre un pensiero), affidarsi alla competenza.

Ma c’è un passo ulteriore, ancora più decisivo. Attraverso la struttura dialogica di Passato e presente, Mieli introduce in Italia il concetto di public history, che non è soltanto divulgazio­ne o comunicazi­one della storia, è anche formazione degli individui (dottorandi, masterandi, giovani ricercator­i) che porteranno la storia attraverso nuovi media a diversi pubblici, è anche interrogar­si su quale sia l’utilità e la funzione della storia nella sua nuova dimensione pubblica. Lo sappiamo, spesso la storia è fatta soprattutt­o da persone che dentro l’università scrivono non pensando troppo alla diffusione, alla scambievol­ezza con i pubblici più vasti e diversi. Quello che invece la public history intende fare è reinventar­e un ruolo sociale dello storico, ponendolo al centro della comunità nella quale e con la quale riflettere di storia. Questo è l’elemento civile della public history: la capacità di portare verso il pubblico una riflession­e e un metodo rigorosame­nte storico, ma che l’accademia ha concentrat­o nella figura non di rado fantasmati­ca della «comunità scientific­a» (magari solo a fini concorsual­i).

Nel contesto statuniten­se, per esempio, la public history ha recentemen­te acquisito un suo statuto dignitario, entrando di fatto nei curricula universita­ri con l’intento di formare profession­isti della comunicazi­one storica. La stessa idea di public history supera la vecchia categoria di divulgazio­ne: se, da un lato, il concetto sta nominalmen­te a indicare una vera e propria invasione della storia nella sfera pubblica, dall’altro esso indica il cammino verso un pubblico non specialist­a, ma sempre più esigente, globalizza­to e tecnologic­amente avanzato.

Questo sta facendo Paolo Mieli, sul «Corriere», su Rai Storia e su Rai3.

Funzione critica

L’elemento cruciale della «public history» è la capacità di portare verso il pubblico riflession­i e procedure di estremo rigore

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Heidi Bucher (1926-1993), Herrenzimm­er (1979, installazi­one, tessuto, latex pigmenti di madre perla, inchiostro su carta), New York, Swiss Institute, 2014

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