Magnini: «Io pulito, tornerei dal medico accusato di doping»
Processo all’ex campione, il pm chiede 8 anni La difesa sulle telefonate: parlavo di magliette
ROMA «Se rifarei tutto da capo? Probabilmente sì. Vorrei ancora al mio fianco il dottor Guido Porcellini, perché quando ero assistito da lui ho sempre fatto cose lecite e Guido si è sempre comportato bene. E lui, come medico, di atleti ne ha seguiti tanti e tutti importanti». Cinque ore di dibattimento nel ruolo di grande imputato (dove ha parlato per due ore di fila) non hanno incrinato la serenità di Filippo Magnini che esce alle sette di sera, a braccetto della fidanzata Giorgia Palmas, dalle aule del Tribunale Nazionale Antidoping di Roma.
Ex grandissimo del nuoto (ha conquistato medaglie olimpiche e mondiali) testimonial di grandi aziende e di una fondazione antidoping, star dei reality show, Magnini ha appena affrontato la sfida più impegnativa della carriera. A 36 anni si è dovuto difendere da tre capi d’accusa infamanti (consumo e tentato consumo di sostanze dopanti, somministrazione, favoreggiamento del doping) che hanno indotto il procuratore nazionale sportivo Pierfilippo Laviani a chiedere per lui la Filippo Magnini in piscina alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, nel 2016, dopo una batteria dei 100 metri pena-monstre di otto anni di squalifica, sanzione riservata ai dopati recidivi. «Ho sofferto e sono stato zitto per lunghissimi mesi — ha spiegato Magnini — e oggi ho finalmente potuto parlare e spiegare tutto ai giudici. Non ho avuto nessun problema. Ho detto semplicemente la verità: io col doping non ho mai avuto niente a che fare».
Con una procedura insolita, il Tribunale Antidoping, che di solito va subito a sentenza, ha interrotto la camera di consiglio dopo un’ora e mezza e l’ha aggiornata al 6 novembre. Segno che forse l’accorata e ben studiata difesa di Magnini (che era assistito dagli avvocati Stincardini e Compagna) qualche dubbio nei magistrati sportivi l’ha instillato.
La vicenda, complessa, ha come protagonista il medicodietologo pesarese Guido Porcellini, già squalificato in via definitiva per 30 anni per doping e attualmente sotto processo penale, dopo aver già subito due condanne per spaccio e maltrattamenti. Porcellini — ex consulente anche di Federica Pellegrini, del tutto estranea all’inchiesta — era, per Magnini, consulente, amico, medico di fiducia, compagno di vacanze.
Un’indagine penale (iniziata nel 2015) e condensata in 1.800 pagine d’intercettazioni e pedinamenti ha evidenziato legami molto stretti tra medico e nuotatore per consigli dietologici e la fornitura di alcuni prodotti farmacologici e integratori.
La Procura di Pesaro, che ha rinviato a giudizio Porcellini, ha ritenuto penalmente irrilevante la posizione del nuotatore. Di avviso diverso la procura sportiva, che avrebbe ritrovato in alcune telefonate la prova di una fornitura di sostanze proibite (effettivamente sequestrate a casa di Porcellini, che le aveva ordinate via Internet in Cina) che Magnini avrebbe poi ceduto al compagno di allenamenti Michele Santucci, che sarà processato venerdì.
Magnini ha provato a smontare passo passo le teorie dell’accusa, precisando che le sostanze oggetto delle conversazioni e dello scambio erano in realtà magliette della sua fondazione antidoping e evidenziando come, pur pedinati costantemente dagli investigatori, lui e Porcellini non siano mai stati sottoposti a fermo o sequestro di materiale.
Ora la palla è nelle mani del tribunale, presieduto da Adele Rando, che ha un compito impegnativo. In un processo semplificato come quello sportivo, la Procura Antidoping nazionale ha un tasso di successi superiori al 90 per cento. Una sconfitta in un caso del genere, di fronte a un atleta con una storia sportiva straordinaria e senza macchia nel campo del doping, sarebbe un colpo pesante alla credibilità degli inquirenti sportivi.