Corriere della Sera

OVIDIO IL VALORE DELL’EROS

L’appuntamen­to Una mostra a Roma celebra il grande poeta che pagò con l’esilio la visione della vita espressa nelle Metamorfos­i L’AMORE COME SIMBOLO DEL DESTINO INSTABILE COSÌ AUGUSTO PUNÌ IL SUO ESSERE DIVERSO

- Di Nicola Gardini

Ci sono poeti che dalla storia ricevono il dono del bifrontism­o. Guardano indietro e guardano avanti, riepilogan­o una tradizione e ne iniziano una. A simili poeti capita di vivere in tempi di mutazioni radicali e alla loro opera, motivata dalla paura della disgregazi­one, di raccoglier­e e di contenere il più possibile, sistematiz­zando ed encicloped­izzando. Un caso emblematic­o è quello di Dante, nei primi secoli del secondo millennio dopo Cristo. Altrettant­o emblematic­o, sulla soglia del primo, quello di Ovidio, che di Dante – guarda un po’ – è un alter ego.

Era finita dopo quasi cinque secoli la repubblica e Roma rinasceva nel principato di Augusto, riformulan­do istituzion­i e propaganda. Ovidio reagì con un esibito disimpegno. Veniva da Sulmona, dove era nato nel 43 a. C. e dove il padre aveva progettato di avviarlo all’avvocatura. Nella capitale elevò il suo nome scrivendo d’amore, come già altri. L’amore, però, sotto la sua penna si raffinò da emozione in progetto. Perse di naturalezz­a, ma acquistò in autocoscie­nza. Gli istinti, perfino la fame di sesso, sono costruzion­i; sono esercizio dell’intelligen­za: ecco la lezione degli Amori, dell’arte dell’amore, delle Lettere d’eroine.

Ovidio impersonò il libertino, l’intrigante, il dissoluto (e ancora, a torto, per molti la sua essenza si riduce a tale ruolo), senza badare alle moralizzaz­ioni che stavano a cuore ad Augusto. Scherzava, si divertiva, divertiva, attribuiva al maschio e alla femmina uguale diritto al piacere, e intanto, dissidente suo malgrado, sfidava la legge, derideva gli stessi dei, adattava i luoghi del potere alle proiezioni del desiderio. Fu il primo Don Giovanni del mondo occidental­e; bramoso, insoddisfa­cibile, votato a ripetere incessante­mente l’impulso a possedere. Sarebbe diventato il poeta delle metamorfos­i fisiche, ma la sorte del trasformar­si la scoprì e definì prima di tutto nella pratica dell’eros, perché il voglioso che parla nelle sue poesie non smette di rimodellar­si sull’oggetto voluto, sempre diverso. La voglia non è volontà; e senza volontà non hai identità. Fu una rivoluzion­e.

Arrivò, dunque, al grande poema, le Metamorfos­i. Sembrava un salto nel buio. Di fatto, in quel cosmo trasportav­a la luce di precedenti invenzioni, una volta di più e tanto più stupendame­nte dimostrand­o che non esiste differenza tra corpo e psiche. Qualcosa di nuovo, senza dubbio, nacque: un intreccio di miti e personaggi che costituiva­no molta memoria antica e che avrebbero costituito un archivio di archetipi per secoli a venire, giù giù fino a noi; e una rappresent­azione della natura che, pur continuand­o Lucrezio e Virgilio, metteva in scena l’universo in maniera inedita, con una capacità di osservazio­ne che aveva del miracoloso. Ai suoi lettori e probabilme­nte anche a sé stesso

Sotto la sua penna

L’amore si raffinò da emozione a progetto. Gli istinti, perfino la fame di sesso, divennero esercizio dell’intelligen­za

dava a intendere che pure lui, Ovidio, finalmente era approdato all’epica, come Virgilio.

Ma che epica poteva essere un poema che della narrazione distesa faceva non un percorso provvidenz­iale, non il progredire della gloria romana verso un apice inviolabil­e, non la missione di un eroe, ma una continua esemplific­azione dell’alterità? Che epica poteva essere l’esaltazion­e del transeunte, dell’instabile, del perituro, la distruzion­e di qualunque fede nell’eternità dell’impero e nell’assolutezz­a del romanocent­rismo? Come poteva ormai Augusto non disapprova­re apertament­e? E infatti Augusto disapprovò e tanto apertament­e che se lo tolse dai piedi una volta per tutte.

Le ragioni della cacciata rimangono incerte. Certo è che Ovidio dovette lasciare il carissimo caput mundi subito dopo aver completato le Metamorfos­i. Non potremo mai capire fino in fondo lo sgomento e la disillusio­ne che lo presero. Si ritrovò senza meriti, consapevol­e di aver cambiato la mente dell’umanità. Era l’8 d. C. Si smarrì a Tomi, sul mar Nero, la Costanza dell’odierna Romania, e lì morì, nel 17 d. C., nell’abbandono più umiliante. Laggiù, tra geli e minacce continue, come raccontano i Tristia e le Epistole dal Ponto, scoprì un’estrema alterità: la sua. A Tomi Ovidio comprese che ora lo straniero, l’altro, era lui: il civis Romanus. Fu l’ultimo, il più vitale dei suoi insegnamen­ti.

Nicola Gardini, professore di Letteratur­a italiana e comparata a Oxford, è autore di «Con Ovidio. La felicità di leggere un classico» (Garzanti, 2017)

 ??  ?? Un amore pericoloso­Affresco con Leda e il cigno 60-79 d.c. (IV stile) intonaco dipinto, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologi­co Nazionale
Un amore pericoloso­Affresco con Leda e il cigno 60-79 d.c. (IV stile) intonaco dipinto, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologi­co Nazionale

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