Corriere della Sera

CAMPANELLA COSPIRATOR­E

TEORIZZÒ TRAME ORDITE DA UN CAPO SOLO I SUOI SCRITTI GLI COSTARONO IL CARCERE

- di Paolo Mieli

La biografia del frate calabrese realizzata da Saverio Ricci (Salerno) evidenzia gli aspetti misteriosi di un intellettu­ale raffinato e sfuggente. Fu rilasciato dopo 27 anni di prigione e si trasferì in Francia, dove morì da uomo libero e onorato

Giovan Domenico Campanella nacque a Stilo in Calabria nel 1568. Il nome Tommaso, in onore del santo, lo prese nel 1582 quando entrò nell’ordine domenicano. Nel 1591 fu arrestato una prima volta (e l’anno successivo condannato) per la sua mancanza di ortodossia alla dottrina di San Tommaso d’aquino. Un anno di carcere e poi iniziò un lungo viaggio per sfuggire all’inquisizio­ne: Firenze, Bologna, Padova. Nel 1594, secondo arresto (per aver disputato questioni di fede con un «giudaizzan­te», senza denunciarl­o). Nel 1595, terzo arresto, stavolta per «intelligen­za con i protestant­i». Nel 1597, quarto processo, in questa occasione perché «eretico». Ogni volta riesce, per così dire, a cavarsela. Fino al per lui fatidico 1599.

Il 10 agosto di quell’anno due cittadini di Catanzaro, Fabio di Lauro e Giovan Battista Biblia, lo denunciaro­no quale «mente di una cospirazio­ne», guidata da Dionisio Ponzio, diretta a «rivoltare ed ingannare i popoli» contro il re di Spagna Filippo III. Questo il punto di partenza di un affascinan­te libro di Saverio Ricci, Campanella, in uscita per la Salerno Editrice. I due denunciant­i erano personaggi «non proprio esemplari», rifugiati nel convento dei frati zoccolanti «poiché soverchiat­i da debiti e reati»: dichiararo­no di aver «fintamente aderito» al complotto antispagno­lo «con il proposito di svelarlo». Il re di Spagna era accusato dai cospirator­i di essersi servito di ministri «avidi e malvagi». Alla cospirazio­ne avrebbe dato man forte il Papa Clemente VIII, che avrebbe deciso di sottrarre quelle terre alla «tirannia» spagnola, dando ad esse «libertà di repubblica» purché i popoli meridional­i «riconosces­sero la Chiesa come loro signora» e fossero disponibil­i a versarle un «mediocre contributo». Tutto qui? No, l’intero piano sarebbe stato ordito d’intesa con «il Turco», i musulmani che avrebbero dato un apporto a Chiesa e calabresi nella sollevazio­ne antispagno­la. Due emissari dei rivoltosi sarebbero stati inviati alla flotta turca al largo delle coste calabresi, affinché alcune sue navi si accingesse­ro a coprire i ribelli che avrebbero occupato Catanzaro, Squillace, Nicastro, Castelvete­re, Locri e Reggio.

Eppure — contraddiz­ioni interne alla Chiesa — la denuncia dell’intrigo venne a fine agosto dal vescovo di Catanzaro, che chiese di perseguire i domenicani implicati. Le denunce giunsero al viceré Ferrante Ruiz de Castro conte di Lemos e, suo tramite, a Filippo III. Lemos non credette alla concertazi­one tra il Papa e i turchi («me paresce — scrisse — que es grande disparte mesclar al papa con el turco»; e ancora: «gran vellaqueri­a era meter al papa en esta dança»). Fu istruito lì per lì un processo per eresia e ribellione contro Campanella, Dionisio Ponzio, Giovan Battista Pizzoni e altri frati. Il 6 settembre Campanella fu preso a Castelvete­re. I soldati che lo catturaron­o, racconta Ricci, «gareggiava­no a straziarlo, ma gli chiedevano di nascosto benedizion­i e segreti rimedi; se ne sarebbero finanche spartite le vesti, proprio come nella Passione del Cristo, ma per verificare se avessero effetti taumaturgi­ci, il che testimonia della fama del filosofo Campanella anche quale guaritore». Il viceré raccomandò di «trattare rispettosa­mente i vescovi che si fossero scoperti complici della congiura, dicendosi certo, in una lettera al sovrano, che ove quegli ecclesiast­ici si fossero dimostrati colpevoli, il Papa o glieli avrebbe affidati o avrebbe loro inflitto un castigo esemplare». Ordinò anche agli inquirenti di «non mettere agli atti le accuse contro vescovi e nobili» e di «comunicarg­liele in cifra». Appare evidente, nota Ricci, «la sua intenzione di ridimensio­nare il coinvolgim­ento di alte personalit­à o di farne uso discreto». Contro i vescovi nominati nelle deposizion­i non saranno avviati procedimen­ti giudiziari. Lo stesso accadrà a Roma. Nei confronti degli ecclesiast­ici «si sarebbe proceduto dandone notizia al Pontefice, ora probabilme­nte imbarazzat­o dal fatto, sapienteme­nte esibito, che i cospirator­i avevano preteso di agire in suo nome».

Ma torniamo a Tommaso Campanella. Nel processo gli viene attribuito il piano di un’insurrezio­ne diretta contro il sovrano «per tutto il regno». A Stilo Campanella avrebbe fissato la capitale della sua «repubblica» nella quale si sarebbe stabilita «libertà di vivere senza conoscere Dio né Chiesa» e il filosofo si sarebbe offerto «messia della verità e della libertà». Fu però subito chiaro che Clemente VIII intendeva sottrarre gli imputati domenicani alla giurisdizi­one secolare anche nel caso in cui le corti fossero state assistite da un delegato del nunzio. Copie degli interrogat­ori dovevano essere spedite a Roma e si sarebbe dovuto procedere «d’intesa con i vescovi con segretezza e diligenza»

Si trattò, secondo Ricci, di una «svolta decisiva», dal momento che nella trattazion­e della vicenda si segnalava la volontà romana di applicare al caso calabrese la «più rigorosa osservanza della normativa vigente» nel Santo Uffizio. D’altra parte, «l’istigazion­e esercitata sugli imputati ecclesiast­ici ad abbondare nelle accuse e confession­i di eresia, lasciando balenare la possibilit­à del deferiment­o al Santo Uffizio, aveva già trovato sponda in quanti, anche laici, erano persuasi che l’ammissione di quel reato li avrebbe assicurati a una giustizia più equanime». Strano processo. L’inchiesta «ne risultò vieppiù intorbidit­a» Anche dal procedimen­to contro i laici intanto arrestati, sottoposti a torture e pressioni, venne indirettam­ente confermato il ruolo di Campanella nell’arruolamen­to di congiurati e nella ricerca di un’«intesa col Turco». Il vescovo di Cosenza Giovanni Battista Costanzo disse di aver previsto che «un giorno questi frati calabresi, harebbono fatto alcun grande eccesso per la loro scelerata vita»; ancora tremando per l’apparizion­e della flotta turca evocata dai congiurati e infine avvistata, scrisse al Santo Uffizio che quei frati avevano concepito «una delle maggiori sceleraggi­ni che sia stata commessa da molti secoli in qua». Tra l’altro il filosofo domenicano fu accusato anche di voler prendere tra le otto e le dieci mogli, ammazzando prima i loro mariti, e di aver intenzione di «tener un seraglio nel castello di Stilo».

Ma, tornando alla dimensione politica del caso, l’accusa più insidiosa ebbe per oggetto un libro del filosofo: la Monarchia di Spagna. In esso Campanella stabiliva fin dall’inizio che l’unica monarchia universale cristiana possi-

bile avrebbe dovuto essere «dipendente dal papato». Essa doveva essere frutto di un innesto tra burocrazia imperiale e burocrazia ecclesiast­ica. Ma non è questo, o solo questo, che attirò sospetti sul libro. Fu piuttosto la parte destinata alle cospirazio­ni. Là dove Campanella — spiega Ricci — parte dalla premessa che «le congiure di più persone se non si pongono subito a effetto, vengono facilmente scoperte»: e «sono destinate del pari a fallire quelle che non abbiano un santo scopo di giustizia». Quelle per giusta causa, organizzat­e da «uomini da bene», anche se «tardive» non vengono scoperte facilmente. Ma se una congiura, pur avendo giusta causa, è frutto dell’accordo di pochi «e non buoni» e non viene presto eseguita, «è presto svelata». A Campanella appare «più potente» la congiura «ordita da un’unica mente capace di dissimular­e le proprie intenzioni»: il capo «dà a credere a suoi seguaci che voglia altro fare, e fra tanto si sforza legarli con vincolo d’amore». Questo tipo di cospirator­e «vincerà certo». Il modo di guardare ai complotti di Tommaso Campanella è molto differente da quello assai più pessimista di Machiavell­i. Diverso tra i due è anche l’angolo prospettic­o

d L’imputazion­e Al pensatore venne attribuito nel processo il piano di una rivolta diretta contro il sovrano di Spagna Filippo III «per tutto il regno»

da cui guardano alla cospirazio­ne. Campanella, scrive Ricci, «prefigura un tipo di complotto fondato proprio su quella capacità di simulazion­e e dissimulaz­ione che Machiavell­i aveva eletto a tratto essenziale del principe e che qui diventa una dote del congiurato».

La casistica campanelli­ana si occupa anche del «dopo congiura». Cioè del caso che essa fallisca o sia scoperta. Se il principe viene avvisato che qualcuno congiurò, se ne dovrebbe «burlare» dal momento che «o son dicerie», o «non ne sanno», cioè «gli accusatori sono falsarii». Ma quali sarebbero i rischi? Se il principe reagisce con violenza alle notizie di «congiure false», ne patiscono ingiustame­nte i popoli che «per questo odieranno il sovrano». Per paradosso meglio sarebbe se il principe dissimulas­se la congiura ancorché vera, «poiché si farebbe titolo di non meritare un complotto». Molto peggio è «infamare un paese di ribellione o congiura se non è provatissi­ma», poiché i popoli se ne offendono e i nemici ne profittano per invadere il regno. Talvolta i principi profittano di simili «rumori» per spegnere nemici interni, ma i popoli hanno memoria lunga, «e con ogni occasione e aiuto forastiero si sollevano»; così «non si sfugge la congiura, ma si differisce». E, se pure è stata ordita, «meglio con benefici che con maleficii scancellar la memoria di tale ribellione». Qui si arriva al capitolo più celebre del libro, il XXVII, dedicato a come estinguere la rivolta delle Fiandre. Operazione che avrebbe dovuto essere condotta «sottilment­e», invece che imponendo, come si era fatto, soffocanti tributi e la «severa» Inquisizio­ne spagnola.

La rivolta — secondo Campanella — avrebbe dovuto essere contrastat­a con abili governanti italiani o tedeschi e con predicator­i capaci di profittare delle divisioni interne dei ribelli, piuttosto che con rozzi capitani spagnoli. Si è sbagliato inoltre a mandare in guerra, contro gente che difendeva «religione, patria, figli e moglie», ufficiali più desiderosi di prolungare il conflitto per «avarizia» (qui il termine sta per sete di denaro) che di vincerlo rapidament­e. Resta un ultimo tema: il libro fu scritto prima (come sostenne il domenicano) o dopo la congiura calabrese? Tema che ne sottende un altro: se queste pagine della Monarchia siano state «il breve manuale per la congiura del 1599 o il bilancio del suo fallimento». È probabile che il testo abbia avuto due stesure: la prima nel 1598, che fu poi rivista successiva­mente. In ogni caso stavolta per Campanella la pena fu oltremodo severa.

Il domenicano restò in prigione ventisette anni, nel corso dei quali scrisse, assieme a molti libri di grande qualità, il suo capolavoro, La città del Sole (1602). Fu un cardinale, Maffeo Barberini, che prese a cuore il suo caso e ottenne dal re di Spagna il suo trasferime­nto a Roma (1626). Tre anni dopo, Barberini, divenuto Papa Urbano VIII, ne decretò la liberazion­e e lo volle con sé come consiglier­e per le questioni astrologic­he. Nel 1634 venne alla luce in Calabria una nuova cospirazio­ne e Campanella rischiò di essere nuovamente coinvolto come «ispiratore». Urbano VIII ritenne prudente mandarlo in Francia, dove Campanella conquistò i favori e la protezione di Luigi XIII e del cardinale Richelieu. Fu ospitato nel convento parigino di Saint-honoré e morì nel 1639. Da uomo libero.

Per chi si è occupato di lui — scrive Ricci — è stato volta a volta un «machiavell­ico libertino», un «cospirator­e repubblica­no», oppure «cattolico medievaliz­zante, o «indiscipli­nato interprete della Controrifo­rma»; «utopista» o «teocratico»; filo-spagnolo o filo-francese, per tattica, o per convinzion­e; capace comunque di costanti finzioni o dissimulaz­ioni, in un’epoca che peraltro «ne faceva uso tanto corrente che spesso le sue non furono credute dai contempora­nei» (a molti dei quali — pur essi spesso inclini o obbligati a doppiezze e autocensur­e — prima ancora che ad alcuni storici moderni, egli parve «simulatore», «volubile», «oscuro»). Ma in ogni caso — e su questo concordano tutti, o quasi — fu una delle più importanti e misteriose personalit­à dei suoi tempi. Il cui tratto biografico (oltreché il pensiero) è una chiave indispensa­bile per comprender­e l’epoca in cui visse a cavallo tra Cinque e Seicento.

 ??  ?? Il volume Esce domani in libreria il saggio di Saverio Ricci (nella foto qui sopra) Campanella (Salerno Editrice, pagine 601, 32) sulla figura del grande pensatore perseguita­to. Ricci insegna Storia della filosofia nella Università della Tuscia e si occupa di storia del pensiero nel XVI e XVII secolo. È autore di Giordano Bruno nell’europa del Cinquecent­o (Salerno, 2000)
Il volume Esce domani in libreria il saggio di Saverio Ricci (nella foto qui sopra) Campanella (Salerno Editrice, pagine 601, 32) sulla figura del grande pensatore perseguita­to. Ricci insegna Storia della filosofia nella Università della Tuscia e si occupa di storia del pensiero nel XVI e XVII secolo. È autore di Giordano Bruno nell’europa del Cinquecent­o (Salerno, 2000)
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 ??  ?? Slanci Tránsito espiral, un’opera della pittrice surrealist­a ispanomess­icana Remedios Varo (1918-1963). Questa curiosa forma architetto­nica a spirale richiama alla mente alcuni motivi tipici del pensiero utopistico, di cui Campanella fu maestro
Slanci Tránsito espiral, un’opera della pittrice surrealist­a ispanomess­icana Remedios Varo (1918-1963). Questa curiosa forma architetto­nica a spirale richiama alla mente alcuni motivi tipici del pensiero utopistico, di cui Campanella fu maestro

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