Lo stop cinese Così la plastica ci invade
I pm: le ecomafie non c’entrano. Crescono i reati ma calano le denunce ambientali
Lo stop della Cina ai rifiuti stranieri ha fatto saltare il sistema. E così la plastica è un’emergenza.
I cinesi l’hanno chiamata operazione yang laji, spazzatura straniera. È il blocco imposto nel luglio 2017 dal Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese a 24 materiali da riciclo: plastica, carta, residui tessili contaminati. Un business da 17 miliardi di dollari al quale il governo di Pechino ha rinunciato in nome di una sorta di «autarchia» dell’inquinamento. Con la conseguenza che in un anno le importazioni di rifiuti si sono più che dimezzate.
Il resto lo ha fatto la famosa teoria del battito d’ali della farfalla e gli effetti per l’intero sistema mondiale sono stati devastanti. In Lombardia, la regione che produce il maggior numero di rifiuti speciali — 29,4 milioni di tonnellate, il 22% di quelli italiani, fonte Ispra — e che vede il record di impianti per il trattamento (1.122), il sistema della plastica è al collasso.
Ovvio, questo non basta a giustificare i 26 incendi di capannoni e discariche dal 2014 ad oggi. E neppure ad «assolvere» chi, trovandosi economicamente con l’acqua alla gola (smaltire in Cina aveva un costo molto inferiore) e praticamente impossibilitato a svuotare i depositi con un continuo accumulo di materiale (spesso oltre il consentito dalla legge), ha risolto i problemi con il fuoco. Perché il meccanismo alla base è questo: cancellare i rifiuti in eccesso o stoccati senza permessi. Come accaduto a gennaio a Corteolona, nel Pavese: sei arresti dei carabinieri una settimana fa. Ma il sistema è più complesso. E necessita — accanto a molte aziende sane, rispettose delle norme e con rigidi sistemi di controllo — della presenza di imprenditori borderline.
Il pubblico ministero della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi, delegato ai reati ambientali, lo ripete spesso: «Basta con queste “ecomafie”. Il business dei rifiuti nella stragrande maggioranza non ha nulla a che fare con le mafie. Anzi, è considerato un settore poco redditizio, molto problematico e, tolta la parentesi dei Casalesi, è di scarsissimo interesse per la criminalità organizzata». Gli ecoreati, insomma, sono una particolarità del settore, e ce n’è già abbastanza senza scomodare le mafie. Diverso è il caso del movimento terra e (in parte) delle bonifiche.
Dello stesso avviso anche la Procura di Milano che nel corso dell’audizione davanti alla Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha chiarito come il passaggio di competenze dai magistrati ordinari alla Direzione distrettuale antimafia «non è stato funzionale»: «Le indagini, almeno quelle più importanti — ha spiegato il pm Laura Pedio — non nascono da denunce in materie ambientali, ma soprattutto da investigazioni finanziarie». Segnalazioni ambientali che, dopo l’accorpamento tra Forestale e carabinieri (che hanno già il Nucleo operativo ecologico) a Milano sono addirittura diminuite: 245 notizie di reato nel 2015, 195 nel 2016: «Ci serve una polizia giudiziaria qualificata, non della dispersione di conoscenze».
Del resto un sistema criminale per stare in piedi ha bisogno anche di una falla nell’ambito dei controlli e della repressione. Per anni i tecnici dell’arpa, l’agenzia regionale per l’ambiente, non hanno avuto funzioni di polizia giudiziaria. Investigatori, ma senza poteri. La stessa situazione
Gli inquirenti
Le indagini più importanti sono nate da investigazioni di natura finanziaria
paradossale è accaduta con la polizia provinciale, smembrata dopo l’abolizione degli enti. Gli investigatori più esperti (vedi l’operazione Star Wars del 2008 a Desio dove era coinvolto il clan Stellitano) sono stati redistribuiti ai vari comandi di polizia locale.
Mentre i tecnici del settore Ambiente della Città metropolitana hanno ancora in capo i controlli e le ispezioni, ma con numeri esigui di organico. Basti pensare che nel 2017 il pool reati ambientali della Procura contava solo su quattro agenti (su sette posti) di polizia giudiziaria.