Corriere della Sera

NON SI GOVERNA CON IL RANCORE

- di Antonio Polito

Alla prima prova della verità, giallo e verde si rivelano incompatib­ili. La lite sul testo del condono fiscale, manipolato secondo Di Maio, approvato da tutti secondo Salvini, misura la distanza culturale e sociale tra due forze politiche che non hanno vinto insieme le elezioni, ma ognuna per conto suo, e poi si sono alleate per necessità. Sensibile come un sismografo, l’impennata record dello spread ha subito segnalato il sospetto che a Roma non ci sia più nessuno al volante. Mentre il premier Conte diceva a Bruxelles che la manovra con la più forte deviazione del deficit della storia «è molto bella e ben pensata», il vicepremie­r Di Maio annunciava dallo studio di Vespa che stava per recarsi dai carabinier­i a denunciarl­a come un falso.

Vedremo se domani, nel vertice annunciato da Conte, il premier-avvocato troverà una formuletta che salvi capra e cavoli e con essi l’unità della coalizione. Ma in ogni caso sembra ormai chiaro che il problema, forse insolubile, sta nella natura del Movimento Cinquestel­le e nella tensione che vi si è accumulata per quella che sui social già chiamano «la retromarci­a su Roma».

L e ultime settimane sono state uno stillicidi­o di passi indietro: sulla Tap, che Di Battista aveva dichiarato morta «entro quindici giorni dalla formazione del nostro governo»; sull’ilva, che volevano chiudere e fortunatam­ente riparte: sulla Gronda e forse anche sulla Tav, con i comitati nogronda e no-tav in fibrillazi­one; magari anche su Genova, dove il governo, smentendo l’anatema, apre uno spiraglio ad Autostrade per la demolizion­e del ponte crollato; o a Ischia, con una sanatoria postterrem­oto che può diventare un colpo di spugna per gli abusivi.

La spiegazion­e più semplice e ottimistic­a di questo arretrare è che anche un movimento come quello ex-grillino deve piegarsi al compromess­o quando si trova davanti alla realtà del governo. Ma la reazione di Di Maio dell’altra sera, quando pur di dare un segnale di resistenza ha accettato il rischio di una brutta figura, rivelando che il condono era stato approvato a sua insaputa, dimostra che le cose sono più complicate.

Il fatto è che nel voto del 4 marzo si sono manifestat­e due convergent­i ma diverse pulsioni, ben descritte dal Censis e da Giuseppe De Rita: la prima è quella del «rancore» (verso la casta e l’élite, ma anche verso chi guadagna di più o ne sa di più); la seconda è «l’esplosione di un bisogno collettivo e radicale di sicurezza» (verso i migranti e in difesa delle frontiere, ma anche contro l’europa e il mercato). Queste due richieste si sono sommate, non fuse, nel governo giallo-trattino-verde. L’idea del contratto, forma privatisti­ca di accordo tra le parti, è nata proprio dalla illusione che sia possibile una diarchia, uno comanda quando

ci si occupa del «rancore» e l’altro della «sicurezza». Ma accade sempre più spesso che l’arte del governo si riveli incompatib­ile con questa pretesa. E così, mentre i leghisti vanno avanti come treni, pragmatici e sornioni, i Cinquestel­le arrancano, e finiscono con l’imitare Salvini nella speranza di contenerlo. I sondaggi registrano fedelmente questo disequilib­rio nella coalizione, e spiegano perché la tensione sta esplodendo.

Mentre infatti governare in nome della «sicurezza» è pericoloso ma possibile, lo fanno già molte altre destre in Europa, non si può invece governare in nome del «rancore». Non esiste infatti un fantomatic­o «cittadino» in nome del quale si possa deliberare senza danneggiar­e un altro cittadino. Siamo tutti cittadini, ma poi la

società è fatta di gruppi e ceti sociali, di corporazio­ni e associazio­ni, e se rottami le cartelle colpisci i contribuen­ti che pagano, e se blocchi la Gronda uccidi il porto di Genova, e se complichi i contratti spingi gli imprendito­ri a non assumere.

La retromarci­a su Roma dei Cinquestel­le pare insomma smentire chi sostiene che alla tradiziona­le dialettica destrasini­stra si possa sostituire un nuovo bipolarism­o tra popolo ed élite. Quando si aprono le contraddiz­ioni in seno al popolo populista, come avviene in queste ore, viene anzi da pensare che anche dopo la Grande Recessione il conflitto sociale resti il motore della lotta politica, e che gli interessi dell’elettorato leghista del Nord, a partire dal condono fiscale, siano inconcilia­bili con gli interessi dell’elettorato stel- lato del Sud. E non basta dare un po’ uno e un po’ all’altro per evitare che confliggan­o.

I Cinquestel­le, proprio per la loro natura di partito pigliatutt­o, sembrano arrivati al punto in cui non sanno scegliere se perdere l’anima o il governo. Vorrebbero essere puri e invece sono costretti a sporcarsi le mani. La Lega, che ha le mani in pasta fin da quando Berlusconi aveva i capelli, sa a chi si rivolge e che cosa vuole, e pensa solo a incassare.

Se fallisse il tentativo di governo del M5S, forza politica non a caso senza uguali in Europa, allora si potrebbe concludere che il «partito della nazione» immaginato da Renzi non ha funzionato nemmeno nell’inedita forma grillina. Il punto è capire quanto può costare al Paese scoprirlo.

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