Corriere della Sera

Asia Bibi e la vita appesa a un filo nel Pakistan dove il peccato è reato

Atteso l’ultimo verdetto sulla donna cristiana condannata a morte per blasfemia

- Di Luigi Manconi

● La condanna all’impiccagio­ne viene confermata in appello nel 2014 per poi essere sospesa nel 2015. Lunedì scorso il collegio di giudici della Corte Suprema si è riservato di emettere il verdetto finale, atteso tra pochi giorni C hi salverà Asia Bibi? Prima del 1986, i codici della repubblica islamica del Pakistan non avevano «leggi per punire un blasfemo» (per citare il testo di Fabrizio de Andrè tratto da Edgar Lee Masters). Ma proprio in quell’anno venne riformulat­a e integrata la normativa diretta a sanzionare con la pena capitale o il carcere a vita i responsabi­li di offese contro il Profeta Maometto o contro il Corano. Trovo meschina e un po’ deprimente la tetra competizio­ne tra differenti contabilit­à di vittime. Di conseguenz­a, non sono affatto sicuro che, come tanti affermano, «nessuno parli dei cristiani perseguita­ti e trucidati nel mondo». Innanzitut­to perché di tanti, tantissimi perseguita­ti e trucidati nel mondo, cristiani e non, si parla poco o punto. E, ancora, perché il trattare un tema o il tacerlo dipendono da una molteplici­tà di fattori che raramente rispondono non dico a un progetto compiuto, ma nemmeno, necessaria­mente, a una strategia di censura o di auto censura (che sia imposta da una mentalità dominante o da interdizio­ni ideologich­e o confession­ali). Ma c’è una ulteriore motivazion­e di fatto che rende difficile, e un po’ indecente, la gerarchizz­azione delle diverse forme di oppression­e. Ovvero il fatto che le vittime non siano riducibili a una sola categoria, a un unico gruppo etnico, a una circoscrit­ta minoranza religiosa. La storia del mondo ci insegna che i diritti umani sono indivisibi­li, ne consegue che a patire violazioni e sopraffazi­oni non sia mai esclusivam­ente un destinatar­io particolar­e. Vale sempre e ovunque: anche in Pakistan, dove le politiche di discrimina­zione hanno come bersaglio oltre che la minoranza cristiana, anche tutti i non musulmani (indù, sikh, parsi, bahai e ahmadi), che vengono esclusi dalle più rilevanti cariche pubbliche e funzioni istituzion­ali. Così i provvedime­nti contro la blasfemia si sono rivelati un micidiale dispositiv­o di persecuzio­ne delle anime e dei corpi, sono stati applicati in centinaia di casi e hanno portato in tribunale, e frequentem­ente al patibolo, cristiani, indù, sikh e tanti musulmani. Come dire che il fanatismo, quando si dispiega in tutta la sua ferocia, non guarda in faccia nessuno.

Il Pakistan è uno dei trentasei paesi nei quali, tuttora, viene applicata la pena di morte. Tra le prossime esecuzioni, potrebbe esserci quella Scambio di regali di Asia Bibi, nata quarant’anni fa, e da nove in isolamento in una cella del carcere di Multan. Nel 2009, la cristiana Asia Bibi lavora come bracciante nel villaggio di Ittanwali. In un giorno come gli altri va a riempire un catino d’acqua per sé e le compagne: la calura è tanta e mentre torna nei campi beve qualche sorso da quel recipiente. Il suo appartener­e a un altro credo basta alle donne musulmane che lavorano con lei per accusarla di aver contaminat­o quell’acqua. Ne nasce un diverbio nel corso del quale, secondo le altre braccianti, Asia avrebbe offeso il Profeta Maometto. Da qui l’arresto e l’inizio del calvario giudiziari­o. L’anno successivo il tribunale del Punjab la condanna a morte per impiccagio­ne: pena che sarà confermata nel processo d’appello del 2014 per poi essere sospesa nel 2015. Lo scorso 8 ottobre il collegio di giudici della Corte Suprema, dopo una lunga udienza, si è riservato di emettere il verdetto finale, che potrebbe arrivare tra pochi giorni.

Quella di Asia Bibi è molto più di una semplice vicenda giudiziari­a. E ciò non solo per la gravità del possibile esito, Papa Francesco, al centro, con il presidente sudcoreano Moon Jae-in e la consorte Kim Jung-sook (Epa) ma anche per la violenza dello scontro contenuto e deformato in questo caso. Com’è stato possibile che il contrasto tra alcune donne, in un campo nella provincia più remota di un paese lontano, sia diventato il simbolo e il centro stesso di un conflitto a livello mondiale, che ha coinvolto opinioni pubbliche e governi, papa Bergoglio e diplomazie internazio­nali? Forse la risposta si può trovare solo scavando a fondo nelle radici della tensione religiosa, ideologica e culturale che attraversa e lacera Oriente e Occidente. Intanto, in Pakistan il partito degli islamisti radicali, Tehreek elabbaik, minaccia «gravi conseguenz­e» nel caso di sentenza di assoluzion­e. Quali possano essere tali conseguenz­e si può immaginare ricordando la sorte delle persone che, negli anni scorsi, si sono espresse a favore della scarcerazi­one di Asia: come il governator­e del Punjab, Salman Taseer, o il ministro per gli Affari delle minoranze, Shahbaz Bhatti, entrambi assassinat­i.

Nel mirino

A essere perseguita­ti sono tutti i non musulmani: oltre ai cristiani, indù, sikh, parsi

Vicenda simbolo Questo caso è diventato il simbolo e il centro di un conflitto a livello mondiale

Infine, in questa vicenda atrocement­e paradigmat­ica, il tema del peccato e del reato (meglio: del peccato trasformat­o in reato) è rappresent­ato dalla blasfemia. Fattispeci­e tanto sottile da rischiare l’evanescenz­a. Eppure da tale vischiosa labilità può derivare la durezza materiale e corposa di una sequenza di esecuzioni capitali: come se un’antica e cruenta disputa teologica continuass­e nei secoli a sanguinare. A paradossal­e conferma di ciò, e sottraendo­ci tuttavia a qualsiasi suggestion­e di indebite assimilazi­oni e di artificios­e affinità, si può notare che in tutt’altra parte del mondo e in tutt’altra cultura la richiesta di perseguire la blasfemia e la «diffamazio­ne di Dio» trova i suoi sostenitor­i. Come quei gruppi del tradiziona­lismo cattolico che, nel 2012, si appellaron­o al magistero di Benedetto XVI.

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