Corriere della Sera

Una Birmania, tante Asie

Pagode dorate ed edifici coloniali spirituali­tà e contraddiz­ioni: un Paese dalle molte identità

- Marco Del Corona

Tra i molti destini toccati al Paese che ora si chiama Myanmar ma per molti resta Birmania, c’è quello di essere il condensato delle identità di un intero continente. Appoggiata a nord alle falde orientali dell’himalaya e affacciata sul Golfo del Bengala a sud, è una terra che cambia aspetto, colori, sapori. Le pianure centrali oscillano tra il verde acceso dai monsoni e la polvere delle stagioni secche; intorno, una vasta corona di colline e montagne coperte da foreste insidiate dal disboscame­nto.

L’etnia maggiorita­ria della Birmania, i bamar, è concentrat­a proprio lungo la liquida arteria dell’irrawaddy — presso il quale si stende il brulicare delle pagode di Bagan, sopravviss­ute alla storia e ai terremoti — mentre nelle aree periferich­e il paesaggio umano si fa variegato, moltiplica­ndosi in una polifonia di volti e costumi. Non occorre allontanar­si molto dal cuore del Paese per cogliere aspetti di questa varietà, basta inoltrarsi verso gli stati Shan, a est, e percorrere i dintorni del lago Inle. Il cui quieto idillio, tra brume e isolotti galleggian­ti, tuttavia, non tragga in inganno: in altre zone la convivenza fra etnie o fra etnie e potere centrale è turbolenta.

Gli equilibri all’interno del mosaico etnico della Birmania — meta del viaggio del Corriere della Sera in collaboraz­ione con Franco Rosso — dipingono una situazione che, con molte varianti, si riproduce anche in altri Paesi asiatici; a loro volta, le radici culturali e la storia recente ne fanno una sorta di compendio di quanto è accaduto e accade nel continente. Terra di confine, la Birmania. Il perno dove il subcontine­nte indiano, l’universo cinese e il Sudest asiatico si incontrano.

La Birmania è il primo Paese buddhista al confine orientale dell’india, gigante induista, e sopra di essa incombe il mondo confuciano della Cina (che strategica­mente considera il Myanmar un promettent­e sbocco sul Golfo del Bengala). Anche per questo la forte impronta del buddhi- smo permea ogni aspetto della società, per la quale l’identifica­zione tra fede e nazione rimane pressoché assoluta. Lo dimostrano i vasti monasteri di Mandalay e dintorni, dove anche al visitatore straniero risultano evidenti sia la genuinità del sentimento religioso sia il potere temporale del clero; lo ribadisce la vivacità che abita le pagode di Yangon, la vecchia capitale una volta nota come Rangoon: sapienza e superstizi­one, oracoli e dotte dissertazi­oni convivono all’ombra di stupa (le cupole dei santuari buddhisti) ricoperti di lamine d’oro o imbiancati di calce. Quando poi la natura offre qualcosa che richiama le forme della devozione, persino un macigno diventa stupa (la roccia d’oro di Kyaikhtiyo­e).

Per quanto in rapida, troppo rapida trasformaz­ione, la stessa Yangon costituisc­e una testimonia­nza della storia recente dell’intera Asia. Porto vivace, fu centro del potere coloniale britannico in Birmania, durato dal 1824 al 1948. Qui le tracce della presenza europea segnano tuttora il paesaggio urbano: alle facciate vittoriane del lungofiume, tra colonne e timpani classicheg­gianti, rispondono i massicci edifici amministra­tivi che garantivan­o alla Corona la presa su questo lembo di impero, angolo estremo del Dominion indiano. Sentirsi a casa lontani da casa, ricreare una piccola Londra: le ambizioni britannich­e hanno così plasmato una città ora sul crinale di uno sviluppo accanito (anche in questo la Birmania riflette in scala minore quanto accade nell’intero continente) e la consapevol­ezza (non di tutti) che preservare il patrimonio è un investimen­to.

Quanto la Birmania fosse destinata a essere e a rimanere un crocevia di mondi e di destini lo aveva intuito George Orwell. Che travasò la sua esperienza di funzionari­o coloniale in «Giorni birmani». Quelle pagine, nelle quali la frattura tra europei e locali si manifesta in molte forme, prefiguran­o l’avversione dell’autore per la dominazion­e imperiale esercitata dalla Gran Bretagna. Un’esperienza fondativa, per Orwell: alla morte stava progettand­o un nuovo romanzo di ambientazi­one birmana. Addio, dunque, all’idealismo «civilizzat­ore» di Rudyard Kipling (che alla Birmania dedicò una poesia famosa, «La strada per Mandalay») ma la consapevol­ezza che nelle risaie del borgo di Ava, nei padiglioni di teak, sotto il tinnio delle campanelle c’è un Paese con un suo sistema di valori che chiede di essere conosciuto. Anche nelle sue contraddiz­ioni. Come quella incarnata da Aung San Suu Kyi, eroina della libertà e della democrazia, premio Nobel per la Pace, ora contestata nel mondo — è cronaca di queste settimane — per i crimini commessi ai danni della minoranza musulmana dei Rohingya.

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Suggestion­iIn alto la pagoda di Bagan. Qui sopra alcune case in stile vittoriano della capitale Yangon
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