Lettere dalla neoavanguardia
Un decennio e oltre di scambi tra Edoardo Sanguineti ed Enrico Filippini
Sembra uscito da un’era remota il carteggio tra Edoardo Sanguineti ed Enrico Filippini (Cosa capita nel mondo, Mimesis, a cura di Marino Fuchs), eppure si tratta di lettere scritte tra il 1963 e il 1977. Sanguineti e Filippini si conobbero, più o meno trentenni, nell’ottobre 1963 al convegno di Palermo per costituire il Gruppo 63. Il primo è già padre di tre figli, ha ottenuto la libera docenza universitaria dopo essere stato a Torino assistente di Getto, ha pubblicato in volume la tesi su Dante; è autore di una raccolta di poesie intitolata Laborintus; è collaboratore della rivista «Il Verri» diretta da Luciano Anceschi; è in amicizia con poeti, artisti e musicisti (tra questi Enrico Baj, Luciano Berio, Luigi Nono) e nel 1961 ha partecipato con suoi testi all’antologia dei Novissimi con prefazione di Alfredo Giuliani. Lo svizzero Filippini ha studiato a Milano, Berlino e Monaco, con Enzo Paci è uno dei protagonisti della riscoperta della fenomenologia, frequenta le avanguardie tedesche, dal 1959 è consulente letterario della Feltrinelli, per cui ha già tradotto opere di Husserl, Dürrenmatt, Frisch, Uwe Johnson. Le strade di Sanguineti e Filippini, per la verità, si erano incrociate nel 1962 sul «Menabò», la rivista di Vittorini e Calvino, che nel numero 5 aveva ospitato testi della neoavanguardia, tra cui i loro. Sanguineti aveva particolarmente apprezzato il racconto Settembre, sentendolo in qualche modo affine al suo primo romanzo, Capriccio italiano, che metteva in gioco la capacità, o meglio l’incapacità, dello scrittore di portare a termine la propria opera e il valore ideologico insito nel linguaggio.
L’epistolario (88 le epistole di Sanguineti, 42 quelle di Filippini) fotografa dunque i due intellettuali nel pieno della loro attività professionale, ideologica e creativa, che coincide con la nascita della neoavanguardia e del Gruppo 63 cui danno il loro, diverso, contributo. Il giorno del primo incontro è l’inizio di un fitto dialogo che si prolungherà, con diverse lacune, fino al trasloco di Filippini presso il Saggiatore e poi presso Bompiani e ancora fino al suo approdo, nel 1976, alla «Repubblica» come caporedattore culturale del neonato giornale di Scalfari. Sono però gli anni Sessanta i più fervidi di discussioni, nel comune intento di «svecchiare» la letteratura italiana e di «rinnovare le coscienze» in una fase di espansione dell’industria editoriale e di «degradazione del consumo» culturale. Intenzioni, progetti, scommesse che oggi appaiono, a posteriori, talmente sconfitte dal corso delle cose da suonare ingenue. Lo fa notare giustamente Fuchs: in poco più di un decennio, i due amici saranno due intellettuali sconfitti e il maturare di questa sconfitta lo possiamo seguire nelle lettere.
Poco dopo l’uscita di Capriccio italiano, che Filippini considera il più importante romanzo contemporaneo, si parte dal corpo a corpo su Triperuno, un testo poetico di Sanguineti uscito da Feltrinelli e dato in traduzione tedesca a Hans Magnus Enzensberger. Al quale Filippini offre la sua disponibilità per un commento sulla base di uno scambio epistolare con Sanguineti.
«Oh malvagio Sanguinaccio, ma che straccio che mi fai, non mi scrivi mai»
Ne deriva una «sventagliata di domande sciocche ma utili», questioni molto stringenti sul testo, richieste di delucidazioni lessicali, dubbi sulle fonti (Alfieri, Foscolo, Sartre) e sulle allusioni ideologiche (Marx, Lukács, Barthes), sulle polemiche (con Calvino), su certe opzioni di punteggiatura eccetera: domande a cui il poeta non si sottrae, sicché la lettura dell’epistolario diventa anche una sorta di inedito autocommento di quello che Filippini definisce: «il miglior esegeta di sé stesso», cioè l’amico Edoardo. Il tutto condito con dichiarazioni di fede politica («faute de
mieux (faute des Chinois) W Pci»), con curiosi paradossi (il matrimonio e la famiglia come cellule di resistenza e di rivoluzione comunista), molta ironia e autoironia: quando Filippini dice che in una certa frase sente sapore di Foscolo, l’amico ringrazia e aggiunge: «ma è mero Sanguineti (W il Sanguineti W)».
Con qualche sorpresa. Vediamo l’insofferente Filippini affaccendato, nell’estate 1965, a intrallazzare in «robacce sotto-segretariali, menate» come la campagna per il premio Strega. Lo vediamo precisare a Scalfari, direttore dell’«espresso», di non
aver mai detto che la prosa di Don Backy (autore di un romanzo feltrinelliano) gli ricorda quella di Sanguineti: «La mia opinione è che, se Sanguineti cantasse, canterebbe bene, perlomeno come Don Backy». Nel ’66 lo troviamo malato («la mente si è spenta, lesa di irrealtà, la voglia è morta, inerte, stemperata, l’elettroshock intellettuale non viene più»), mentre l’amico si lamenta di lavorare come una bestia da soma. Preferisce ritrarsi quando Edoardo gli chiede un saggio per la rivista «Marcatrè»: «Omettiamo di arricchire il mondo di un’ulteriore superflua farneticazione». Preferisce dedicarsi pigramente a «cose immani»: «Ciao, e su il gomito», saluta.
«Oh malvagio Sanguinaccio / ma che c... ma che straccio / che mi fai / che non mi scrivi mai?», si lamenta Filippini. Dal canto suo l’amico minaccia scherzosamente il «latitante, semidefunto, promettitore fedifrago», mandandogli un disegnino con bara e altri segni di presagio di morte e di malaugurio: una pistola, il vizio del bere, la provvidenza, un teschio, una svastica eccetera. L’esorcismo dell’amico è a stretto giro di posta.
Un po’ di divertita goliardia, un po’ di amarezza: soprattutto per Filippini che nel 1970 concorre per la cattedra di italianistica al Politecnico di Zurigo ma viene escluso per ragioni politiche; diventa un grande giornalista, ma resta uno scrittore senza libro, pur avendo alle spalle racconti pregevolissimi come L’ultimo viaggio, scritto negli ultimi mesi di vita. Ancora un anno prima di andarsene, nell’87, Enrico detto Nani dichiarava la sua nostalgia per quella funzione di verità della letteratura in cui lui, come Edoardo, aveva creduto: avvertendo però che «la nostalgia non è un sentimento crepuscolare o malinconioso, ma un sentimento felice, vitale, positivo».