Corriere della Sera

LA REALTÀ TESTARDA DEI NUMERI

- di Francesco Giavazzi

L a realtà è testarda. Oggi si palesa con il declassame­nto di Moody’s e in un numero. Lo spread, cioè la differenza fra il rendimento di un Btp e quello di un Bund tedesco. Ha superato la soglia dei 300 punti il 2 ottobre quando il governo, dopo settimane in cui ripeteva che gli impegni assunti con l’europa sarebbero stati rispettati, ha annunciato un deficit tre volte superiore. Purtroppo non si tratta solo di regole violate. I giorni precedenti il 2 ottobre il ministro dell’economia aveva incontrato numerosi investitor­i internazio­nali ripetendo che il deficit si sarebbe fermato intorno all’1,6. È stato preso in parola, e il lunedì successivo i loro fondi, che detengono molti Btp, hanno subito perdite gravi. La scarsa dimestiche­zza di Giovanni Tria con i mercati non aiuta: nel mondo della finanza la parola data è tutto e la reputazion­e, una volta perduta, non si riacquista più.

Sembra si faccia il possibile perché l’italia scivoli verso l’america Latina, cioè divenga un Paese in cui le promesse della classe politica negano l’aritmetica. E poi, quando la forza della realtà si impone, anziché correggere gli errori si cerca di cambiarla: si stampa moneta e si finisce con l’inflazione e l’aumento della povertà. «Populism in Latin America» di Sebastian Edwards e Rudiger Dornbusch è un libro illuminant­e che oggi dovrebbe essere tradotto e letto. Per evitare che questo accada bisogna conoscere la nostra storia e chi siamo.

Se davvero le nostre scuole fossero un disastro, come mai migliaia di ricercator­i italiani lavorano nelle migliori università del mondo? Forse hanno completato i loro studi lontano dall’italia, ma i più si sono formati nella nostra scuola pubblica. La nostra sanità pubblica ha un’ottima qualità (con eccezioni in alcune regioni del Mezzogiorn­o) e protegge tutti. Negli Stati Uniti anche dopo le riforme del presidente Obama c’erano ancora circa 27 milioni di cittadini privi di assicurazi­one medica che non possono permetters­i cure ospedalier­e.

E poi le imprese. La nostra bilancia commercial­e è in attivo per circa 40 miliardi di euro. Cioé, esportiamo 40 miliardi di beni e servizi in più di ciò che serve per pagare tutta l’energia che importiamo. Non solo i grandi, come Luxottica o Leonardo, ma anche la meccanica veneta ed emiliana, i Brevini per fare un esempio. E poi Brembo, Marposs, Datalogic, Prysmian e tanti altri. Imprendito­ri riconosciu­ti come leader al mondo nei loro settori. Troppo a lungo sono rimasti in silenzio.

Scriveva Luigi Einaudi su queste colonne il 6 agosto 1924, quattro mesi dopo le elezioni politiche del 6 aprile in cui il Partito Nazionale Fascista ottenne il 65 percento dei voti: «Contro lo stato di illegalism­o, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressio­ne della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi profession­ali degli avvocati, partiti politici pur aderenti al governo attuale, come i liberali, e alta si è sentita ieri la voce dei combattent­i. Soltanto i capitani dell’italia economica tacciono».

Quelle libertà per ora non sono in pericolo, ma la superficia­lità con la quale i due vicepresid­enti del Consiglio accennano ad una possibile uscita dall’unione europea («Qui mi trovo a casa, in certa Europa no» ha detto due giorni fa a Mosca Matteo Salvini) sollevano per il futuro dell’italia problemi altrettant­o gravi.

La bilancia commercial­e È in attivo per 40 miliardi di euro, la nostra sanità ha un’ottima qualità e anche la scuola

Gli imprendito­ri italiani vivono nel mondo, sono ogni giorno impegnati in gare difficili, con una concorrenz­a che non consente disattenzi­oni. I loro clienti sono a Hong Kong, in Canada, in California. È comprensib­ile che Roma sembri loro su un altro pianeta. Ma sbagliano. Il valore delle loro aziende non prescinde dal valore dell’italia. A parte il fatto che le imprese italiane hanno emesso obbligazio­ni in valute diverse dal-

Promesse da mantenere Nel mondo della finanza la parola data è tutto la reputazion­e una volta perduta non si riacquista

l’euro per qualche centinaio di miliardi, e che quindi subirebber­o perdite ingenti nel caso di un’uscita dall’unione monetaria. Per molti, ad esempio per l’industria del mobile o quelle del cibo e della moda, doversi spostare altrove nel mondo vorrebbe dire perdere buona parte del loro valore.

Una consapevol­ezza però inizia a farsi strada. Quello che hanno detto Marco Bonometti (industrial­i lombardi), Alessio Rossi (giovani imprendito­ri), Carlo Bonomi (Assolombar­da), nelle ultime 48 ore dimostra che anche fra gli imprendito­ri qualcuno comincia a capire. Dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per la maggioranz­a e il governo. Se così non sarà, prepariamo­ci ad una realtà molto buia.

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