Lavoro in team tra fiori freschi e i giovedi del gin
Negli studi degli architetti Comincia una nuova serie che racconta i luoghi di creazione dei grandi progettisti. Piero Lissoni, a Milano, vi ospita le passioni personali e alcune «feste leggendarie»
Ingresso nascosto. Un cancello che potrebbe essere solo il passaggio a un carraio. In fondo si intravede una casa bassa avvolta dai rampicanti e la macchia di colore di alcune sedute da esterni. Si presenta così, a chi arriva, lo studio milanese di Piero Lissoni, architetto e designer tra i più importanti sulla scena internazionale. Nessun portone ma l’accesso diretto dalla corte al livello inferiore, dove si intravedono grandi spazi comunicanti e scrivanie scandite solo dal bianco. Su per la scala c’è l’ingresso vero, dietro cui si apre un mondo di tavoli da lavoro, angoli riunione, divisori leggeri, molta luce, librerie, qualche oggetto fuori scala. Impossibile dire in quale di questi ambienti Lissoni ci accolga: lui sta ovunque.
«È il mio modo. Non rimango mai chiuso a lungo in un luogo, ma mi espando a seguire i vari ambiti. Qui si lavora in team, e io ne faccio parte. Dietro ogni progetto ci sono dei gruppi: io più un’altra persona, fino a una decina. Nessun “one-man-show”: tutto funziona con il dialogo. Io imposto i concetti, lancio l’idea, la approfondisco con degli schizzi ma il processo è un divenire messo in comune», afferma, seduto al tavolo del suo studio, quello sì dietro una porta. Qui l’atmosfera è diversa, il bianco si scalda grazie alla luce morbida che filtra da un cavedio vetrato. Ma soprattutto grazie agli oggetti.
«Quando arrivai, 20 anni fa, questo edificio era un ex magazzino di ceramiche ormai chiuso, ricavato nell’atelier storico di un setificio — racconta —. Capitai per caso e me ne innamorai. C’erano tremendi controsoffitti e finestre in alluminio, fuori era disastrato. Ma
si leggeva la bellezza». Impossibile immaginarlo, l’atmosfera oggi è di una fresca eleganza contemporanea, che lascia spazio alla sorpresa. «Il luogo era vuoto, e si è costruito man mano. Prima ho portato l’armadio con i libri, poi gli oggetti. E questa stanza è diventata una specie di mia wunderkammer», dice, mentre indica i vecchi giocattoli in metallo, i cavalli cinesi del 1200, la chiave gigante da mercatino, la scultura maoista in porcellana trovata a Pechino. «Niente è arrivato per una logica. Alcuni pezzi provengono da casa, che è quasi vuota perché sono tutto il contrario di un accumulatore seriale — scherza —. Molti sono incidenti in cui mi sono imbattuto, e qui stanno bene perché fanno da fil rouge delle mie curiosità. Sono un catalogo di quello che sono io. Il mio modello culturale». Tanti libri professionali ma poco canonici («Volumi fotografici sugli architetti, da guardare più che leggere. Mai come modello di studio») e altri che di canonico sono l’opposto: «Le raccolte di Top0lino e Paperinik. Dietro però tengo anche Goethe, ma ben nascosto...», dice, gioche- rellando con il tablet.
Ecco, nessun computer da architetto sul suo grande tavolo ingombro di libri, animali meccanici brasiliani, un modellino di aereo, vasi: «Disegno su fogli piccolissimi ma soprattutto con la penna elettronica. Per cui mi serve poco spazio. Ma quando noto che si è ridotto a meno di 50 centimetri, allora capisco che devo fare ordine...». Lo stesso che impone ai suoi: «Ogni tanto faccio un’incursione tra le scrivanie. Se lascio un biglietto perché ho trovato caos, meglio sistemare entro le 24 ore, pena ritrovarsi con tutto quanto buttato!». Regole ferree ma condivisione: «Le nostre feste sono leggendarie. Come i nostri “giovedì del gin”. Ma senza “vogliamoci bene” a tutti i costi». Anche se gentilezza e cura ci sono: dai fiori freschi sui tavoli («Vado io stesso a comprarli al mercato. Un po’ sfioriti e particolari») a un pensatoio messo a disposizione di tutti, in un appartamento adiacente: «Lì si va a meditare, a leggere, a disegnare. A fare pranzi, riunioni riservate o discussioni accese. Ci sono i giornali, i divani, la cucina, un terrazzo. Ma niente cellulari: è un luogo solo nostro. Dove anch’io vado quando mi serve il silenzio». Tornando (per una volta) ad essere unico attore sul suo palcoscenico.