Corriere della Sera

Lavoro in team tra fiori freschi e i giovedi del gin

- Silvia Nani

Negli studi degli architetti Comincia una nuova serie che racconta i luoghi di creazione dei grandi progettist­i. Piero Lissoni, a Milano, vi ospita le passioni personali e alcune «feste leggendari­e»

Ingresso nascosto. Un cancello che potrebbe essere solo il passaggio a un carraio. In fondo si intravede una casa bassa avvolta dai rampicanti e la macchia di colore di alcune sedute da esterni. Si presenta così, a chi arriva, lo studio milanese di Piero Lissoni, architetto e designer tra i più importanti sulla scena internazio­nale. Nessun portone ma l’accesso diretto dalla corte al livello inferiore, dove si intravedon­o grandi spazi comunicant­i e scrivanie scandite solo dal bianco. Su per la scala c’è l’ingresso vero, dietro cui si apre un mondo di tavoli da lavoro, angoli riunione, divisori leggeri, molta luce, librerie, qualche oggetto fuori scala. Impossibil­e dire in quale di questi ambienti Lissoni ci accolga: lui sta ovunque.

«È il mio modo. Non rimango mai chiuso a lungo in un luogo, ma mi espando a seguire i vari ambiti. Qui si lavora in team, e io ne faccio parte. Dietro ogni progetto ci sono dei gruppi: io più un’altra persona, fino a una decina. Nessun “one-man-show”: tutto funziona con il dialogo. Io imposto i concetti, lancio l’idea, la approfondi­sco con degli schizzi ma il processo è un divenire messo in comune», afferma, seduto al tavolo del suo studio, quello sì dietro una porta. Qui l’atmosfera è diversa, il bianco si scalda grazie alla luce morbida che filtra da un cavedio vetrato. Ma soprattutt­o grazie agli oggetti.

«Quando arrivai, 20 anni fa, questo edificio era un ex magazzino di ceramiche ormai chiuso, ricavato nell’atelier storico di un setificio — racconta —. Capitai per caso e me ne innamorai. C’erano tremendi controsoff­itti e finestre in alluminio, fuori era disastrato. Ma

si leggeva la bellezza». Impossibil­e immaginarl­o, l’atmosfera oggi è di una fresca eleganza contempora­nea, che lascia spazio alla sorpresa. «Il luogo era vuoto, e si è costruito man mano. Prima ho portato l’armadio con i libri, poi gli oggetti. E questa stanza è diventata una specie di mia wunderkamm­er», dice, mentre indica i vecchi giocattoli in metallo, i cavalli cinesi del 1200, la chiave gigante da mercatino, la scultura maoista in porcellana trovata a Pechino. «Niente è arrivato per una logica. Alcuni pezzi provengono da casa, che è quasi vuota perché sono tutto il contrario di un accumulato­re seriale — scherza —. Molti sono incidenti in cui mi sono imbattuto, e qui stanno bene perché fanno da fil rouge delle mie curiosità. Sono un catalogo di quello che sono io. Il mio modello culturale». Tanti libri profession­ali ma poco canonici («Volumi fotografic­i sugli architetti, da guardare più che leggere. Mai come modello di studio») e altri che di canonico sono l’opposto: «Le raccolte di Top0lino e Paperinik. Dietro però tengo anche Goethe, ma ben nascosto...», dice, gioche- rellando con il tablet.

Ecco, nessun computer da architetto sul suo grande tavolo ingombro di libri, animali meccanici brasiliani, un modellino di aereo, vasi: «Disegno su fogli piccolissi­mi ma soprattutt­o con la penna elettronic­a. Per cui mi serve poco spazio. Ma quando noto che si è ridotto a meno di 50 centimetri, allora capisco che devo fare ordine...». Lo stesso che impone ai suoi: «Ogni tanto faccio un’incursione tra le scrivanie. Se lascio un biglietto perché ho trovato caos, meglio sistemare entro le 24 ore, pena ritrovarsi con tutto quanto buttato!». Regole ferree ma condivisio­ne: «Le nostre feste sono leggendari­e. Come i nostri “giovedì del gin”. Ma senza “vogliamoci bene” a tutti i costi». Anche se gentilezza e cura ci sono: dai fiori freschi sui tavoli («Vado io stesso a comprarli al mercato. Un po’ sfioriti e particolar­i») a un pensatoio messo a disposizio­ne di tutti, in un appartamen­to adiacente: «Lì si va a meditare, a leggere, a disegnare. A fare pranzi, riunioni riservate o discussion­i accese. Ci sono i giornali, i divani, la cucina, un terrazzo. Ma niente cellulari: è un luogo solo nostro. Dove anch’io vado quando mi serve il silenzio». Tornando (per una volta) ad essere unico attore sul suo palcosceni­co.

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 ??  ?? Feticci Sopra l’architetto Piero Lissoni, seduto sul «pouf» ricavato dal contenitor­e di un vaso da saké; qui accanto, una scultura in porcellana di epoca maoista, acquistata a Pechino
Feticci Sopra l’architetto Piero Lissoni, seduto sul «pouf» ricavato dal contenitor­e di un vaso da saké; qui accanto, una scultura in porcellana di epoca maoista, acquistata a Pechino
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 ??  ?? Gioco di squadraIn alto, nella corte prospicien­te attrezzata a zona relax, i collaborat­ori della Lissoni Associati, Lissoni Architettu­ra e Graph.x. In prima fila, tra gli altri, il figlio Francesco, designer e partner, e, sul ballatoio, il fratello Massimo, a capo di Graph.x; qui sopra, l’ambiente al primo livello dedicato ai progetti di architettu­ra (fotoserviz­io Carla Mondino)
Gioco di squadraIn alto, nella corte prospicien­te attrezzata a zona relax, i collaborat­ori della Lissoni Associati, Lissoni Architettu­ra e Graph.x. In prima fila, tra gli altri, il figlio Francesco, designer e partner, e, sul ballatoio, il fratello Massimo, a capo di Graph.x; qui sopra, l’ambiente al primo livello dedicato ai progetti di architettu­ra (fotoserviz­io Carla Mondino)
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Pezzi d’affezione In alto, un vecchio modellino; qui sopra, il modello anni 60 di una fabbrica a vapore; qui sotto, i fiori freschi, che Lissoni non fa mai mancare

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