Le 43 vittime, i sopravvissuti: la memoria come medicina
Ai funerali non c’era nessuno dietro a quelle bare. Le targhette con il nome, una corona di fiori, nessuno a piangere per loro. I quattro francesi, nei giorni dopo il crollo li hanno chiamati così per brevità di cronaca. Uno di loro, si chiamava William, aveva 25 anni, era al suo primo viaggio all’estero. Aveva conosciuto gli altri tre su una chat, avevano in comune solo la meta, un rave che doveva rimanere segreto fino all’ultimo, con le istruzioni sulla località da raggiungere che cambiavano di continuo. Fino all’ultima coordinata, un sms ricevuto al mattino presto, che imponeva all’improvvisata comitiva di passare da quel ponte. I quattro francesi, e poi gli altri, gente che ci passava spesso e gente che invece faceva quel viaggio solo una volta l’anno, come Henry Diaz, studente di ingegneria, che accompagnava una anziana milanese nella sua casa di villeggiatura in Toscana. Gli amici raccontano che la donna soffriva di mal d’auto, e che avesse chiesto a Henry di fare un percorso magari più lungo ma con meno curve. Si trovavano tutti lì, quel giorno, a quell’ora. «Genova, 11.36». Il luogo, e l’attimo preciso. È il titolo del film documentario sulla tragedia del ponte Morandi, prodotto da 42° parallelo e presentato al «Mia», il Mercato internazionale dell’audiovisivo di Roma, più di 300 ore di materiale girato, che raccontano il lavoro delle squadre Usar dei Vigili del fuoco dal momento in cui hanno cominciato a scavare cercando superstiti, interviste a oltre cento persone, testimoni oculari, soccorritori, forze dell’ordine. E soprattutto una scelta. Sono passati appena due mesi, quel disastro è sempre sulle pagine dei giornali, ma si è trasformato in una inchiesta giudiziaria, in una questione politica, chi ricostruirà il ponte, quando verranno demoliti i monconi, in una discussione sul futuro di Genova e sulle sofferenza di una città divisa in due. Le 43 vittime sono diventate quasi una nota a margine. L’unico punto di vista che manca è il loro. L’obiettivo dichiarato di «Genova 11.36», ancora in fase di coproduzione, è di raccontare le storie di chi non c’è più e di chi è rimasto ferito. È anche il solo modo per non rendere ancora più vane quelle 43 morti. La memoria opposta alla rimozione, il ricordo come medicina. Per non perdere la consapevolezza della gravità di quel che è accaduto.
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