Corriere della Sera

Le 43 vittime, i sopravviss­uti: la memoria come medicina

- di Marco Imarisio

Ai funerali non c’era nessuno dietro a quelle bare. Le targhette con il nome, una corona di fiori, nessuno a piangere per loro. I quattro francesi, nei giorni dopo il crollo li hanno chiamati così per brevità di cronaca. Uno di loro, si chiamava William, aveva 25 anni, era al suo primo viaggio all’estero. Aveva conosciuto gli altri tre su una chat, avevano in comune solo la meta, un rave che doveva rimanere segreto fino all’ultimo, con le istruzioni sulla località da raggiunger­e che cambiavano di continuo. Fino all’ultima coordinata, un sms ricevuto al mattino presto, che imponeva all’improvvisa­ta comitiva di passare da quel ponte. I quattro francesi, e poi gli altri, gente che ci passava spesso e gente che invece faceva quel viaggio solo una volta l’anno, come Henry Diaz, studente di ingegneria, che accompagna­va una anziana milanese nella sua casa di villeggiat­ura in Toscana. Gli amici raccontano che la donna soffriva di mal d’auto, e che avesse chiesto a Henry di fare un percorso magari più lungo ma con meno curve. Si trovavano tutti lì, quel giorno, a quell’ora. «Genova, 11.36». Il luogo, e l’attimo preciso. È il titolo del film documentar­io sulla tragedia del ponte Morandi, prodotto da 42° parallelo e presentato al «Mia», il Mercato internazio­nale dell’audiovisiv­o di Roma, più di 300 ore di materiale girato, che raccontano il lavoro delle squadre Usar dei Vigili del fuoco dal momento in cui hanno cominciato a scavare cercando superstiti, interviste a oltre cento persone, testimoni oculari, soccorrito­ri, forze dell’ordine. E soprattutt­o una scelta. Sono passati appena due mesi, quel disastro è sempre sulle pagine dei giornali, ma si è trasformat­o in una inchiesta giudiziari­a, in una questione politica, chi ricostruir­à il ponte, quando verranno demoliti i monconi, in una discussion­e sul futuro di Genova e sulle sofferenza di una città divisa in due. Le 43 vittime sono diventate quasi una nota a margine. L’unico punto di vista che manca è il loro. L’obiettivo dichiarato di «Genova 11.36», ancora in fase di coproduzio­ne, è di raccontare le storie di chi non c’è più e di chi è rimasto ferito. È anche il solo modo per non rendere ancora più vane quelle 43 morti. La memoria opposta alla rimozione, il ricordo come medicina. Per non perdere la consapevol­ezza della gravità di quel che è accaduto.

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