Corriere della Sera

ITALIANI LINA WERTMÜLLER

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quella libertà. A un Golden Globe (ne ha vinti due, uno nel ’75, uno nel 2009 alla carriera), Robert Altman si alzò, fece tacere tutti, le s’inginocchi­ò davanti e le baciò i piedi. Ora, nella sua casa di Roma affacciata su Piazza del Popolo, Lina ne ride. Dice: «La verità è che ho dei piedi bellissimi».

Nel 1977, il suo «Pasqualino Settebelle­zze» ebbe quattro nomination agli Oscar, un record per una regista donna. Come si sentiva?

«Bah, che domanda del cavolo è? Era bello, pieno di attori, registi... Sulla poltrona a me assegnata, feci sedere la mia amica Lalla Kezich. Quando m’inquadrava­no, il mondo vedeva lei. Ci fu chi disse che l’oscar non me lo diedero per quella beffa, ma non credo. Per l’oscar devi organizzar­e centinaia di proiezioni. Noi eravamo un gruppetto avventuros­o e ignaro di queste dinamiche».

Avventuros­a era stata anche la caccia alla protagonis­ta da affiancare a Giancarlo Giannini.

«Se la ricorda Shirley Stoler? L’ha letta la biografia? Era un’enorme Cenerentol­a che avevo visto in un piccolo film e che nessuno sapeva più dove trovare, partii per New York e mi misi a battere i teatrini di Broadway. Quando la scovai e le offrii la parte non voleva credere alle sue orecchie. Dopo le nomination, i produttori m’invitavano nelle ville di Hollywood, ma non si concludeva mai niente. Forse, ci mettevo del mio: una volta, feci schizzare una patata al cartoccio sulla faccia del più potente azionista della Universal Pictures. Mi disse “ottima mira, baby” e non lo sentii più».

Si è pentita di aver rifiutato un milione di dollari dagli inglesi di Penthouse per girare «Caligola»?

«Volevo un Caligola mio, non scritto da Gore Vidal. Allora, il produttore mi offrì due milioni per dirigere Caterina di tutte le Russie e di nuovo dissi no. Dopo, avevo le lacrime agli occhi. Mi sentivo eroica, però mi rendevo conto di essere anche un’imbecille. Avevo rifiutato un fiume di soldi in nome dell’integrità artistica. Ma non mi sono pentita».

«I basilischi», il suo primo film, lo aveva fatto con niente.

«L’intera troupe di Federico Fellini, del quale ero stata aiuto regista ne La Dolce Vita e in 8½, venne come me in Basilicata solo per la mia simpatia. Alcuni erano gli stessi che al mio primo apparire sul set accanto a Federico s’erano dati di gomito: “Ao’, c’avemo l’aiuto regista col visone”. Ero donna, giovane, di buona famiglia, ma il visone era un visone modesto».

Come li conquistò?

«Se si è seri, è più facile farsi prendere sul

La notte degli Oscar Sulla poltrona assegnata a me come candidata, feci sedere la mia amica Lalla Kezich. Ci fu chi disse che l’oscar non me lo diedero per quella beffa, ma non credo

Madre a 62 anni Maria Zulima è la figlia di mio marito e quindi è mia figlia. È stata ed è amata tanto. È nata dal nostro amore, la vita è imprevedib­ile. Il resto sono sciocchezz­e

serio. Certo, ci vuole carattere».

Mi faccia un esempio di «carattere».

«Mi chiamarono a salvare un film western in Jugoslavia. Accetto, usando uno pseudonimo maschile. Vado e trovo il disastro. Mi si presenta l’organizzat­ore, vestito da cowboy, perché desiderava fare la comparsa. Per risposta, gli tiro un cazzotto sul naso. Poi, arriva il protagonis­ta, un americano, e mi chiede di non fare a Elsa Martinelli più primi piani che a lui. Gli rispondo che fingo di non aver sentito. Il giorno dopo, giravo Elsa che fa il bagno in un lago e vengono a dirmi che lui stava lasciando il set perché mi occupavo troppo di Elsa. Misi di spalle una controfigu­ra col costume dell’americano e la feci pugnalare alla schiena, in una scena creata lì per lì. Fine dell’americano. Gli feci dire che per me era morto e cambiai protagonis­ta».

Perché diede un morso a Luciano De Crescenzo?

«Sul set di Sabato, domenica e lunedì, nelle scene a tavola, sottolinea­va le battute col dito alzato. Gli dissi di smetterla. Una volta, due. La terza, mi avventai sul suo indice e gli diedi un “mozzico”».

A Monica Vitti distrusse un vestito.

«Eravamo a Parigi, in teatro. Tutti dovevano recitare in tuta, lei non voleva. Scoprii che le era arrivato un abito di voile azzurro e che lei aveva tagliuzzat­o la tuta. Allora, tagliuzzai l’abito, feci rammendare la tuta e le dissi “Mettiti questa, Ceciarelli, sennò ti spacco la faccia”. Ceciarelli era il suo vero cognome».

Dopo, nei suoi film, Vitti non c’è mai. Fu Monica a dirle no o lei a non volerla?

«Forse siamo state tutte e due».

Invece Mariangela Melato raccontava che fu lei a imporla quando nessuno la voleva.

«Il direttore della fotografia di Mimì metallurgi­co ferito nell’onore continuava a dirmi “non c’ha zigomi, non è fotogenica”. Ma se una faccia mi piace, io galoppo il cavallo. Quello fu il primo di una serie di film di lei in coppia con Giancarlo Giannini. Insieme erano formidabil­i. Con Travolti da un insolito destino… sono diventati sex symbol mondiali».

Davvero non ha visto il remake di quel film fatto da Madonna e Guy Ritchie?

«Poi forse l’ho visto, ma del passato non m’importa tanto».

Nella sua autobiogra­fia del 2012, «Tutto a posto e niente in ordine», scrive che ha sempre vissuto sul «sunny side of the street». Cos’è questo lato assolato della strada?

«Ho una natura allegra. Quando I basilischi vinsero il Festival di Locarno e premi in tutto il mondo dicevano che era nata una regista im- pegnata. L’etichetta mi annoiava, per questo volli fare Il giornalino di Giamburras­ca per la tv, con Rita Pavone».

Anche lei era stata una Giamburras­ca.

«Sono stata cacciata da undici scuole. La volta più clamorosa fu quando all’asilo venne “la vigilatric­e” a esaminarci. Avevo chiesto di uscire per fare la pupù, non mi avevano dato il permesso. Ripetei la richiesta, niente. Al che, mi calai le mutandine e la feci davanti alla vigilatric­e».

La folgorazio­ne per il cinema come arriva?

«E chi se lo ricorda più… Con la mia migliore amica Flora Carabella, che sposerà Marcello Mastroiann­i, recitavamo poesie sul terrazzo. A 16 anni, andai a studiare il metodo Stanislavs­kij. Poi, gli interessi si espandono e pensai di fare la regista. Passai sette anni divertenti­ssimi con Garinei e Giovannini. Ricordo Wanda Osiris che inciampa e cade di testa nella grancassa».

Come riuscì a farsi prendere da Fellini?

«E che ne so. Gli sarò sembrata intelligen­te».

Per 40 anni è stata sposata a Enrico Job, mancato dieci anni fa. Artista, scrittore, scenografo. Che amore è stato?

«È stato l’incontro più importante della mia vita. Preparavo i costumi di Questa volta parliamo di uomini, vidi un disegno bellissimo, mi dissero che era suo, che era un vero talento. E io, cretina: “Se non lo conosco, non è nessuno”. Invece, me lo presentaro­no ed era bellissimo, coltissimo, spiritoso. La sera stessa già saltellavo e dicevo: “È lui!”. Ci conoscemmo nel ’65, ci sposammo nel ’67 e ci siamo amati sempre».

Come si sopravvive a un amore così grande? «Male».

Nel 1991, lei 62enne, siete diventati genitori di Maria Zulima. Si fecero tutte le ipotesi: adozione, utero in affitto… Qual è la verità?

«Sono tutte sciocchezz­e. Maria è la figlia di Job e quindi è mia figlia».

Lui disse che era nata da una relazione extraconiu­gale e che lei l’aveva accolta come sua.

«È nata dal nostro amore. La vita è imprevedib­ile. Diventare genitori è stato bellissimo. Maucì, così la chiamiamo, è stata ed è amata tanto. È apparsa in tutti i nostri film. La bimba che gattona in Io speriamo che me la cavo è lei. Però, crescendo, recitare non le è interessat­o».

C’è qualcosa a cui lei ancora lavora?

«Sì, ma non mi va di raccontarl­o. E non mi chieda del futuro. Quando guardo davanti mi dico solo: boh».

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Insieme Lea Wertmüller con il marito, lo scenografo Enrico Job

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