Corriere della Sera

Io, Roth, romanziere spietato

«La linfa della scrittura? Un’attenzione inflessibi­le ai particolar­i concreti»

- di Philip Roth

Stasera non metterò alla prova la vostra pazienza coi miei aneddoti sulla Osborne Terrace Library, la piccola biblioteca di quartiere a un chilometro e qualcosa da casa mia, e su come da bambino andassi fin lì ogni quindici giorni a prendere in prestito dei libri. Poi li portavo a casa, cinque o sei per volta, nel cestino della bici. Ma questa storia l’ho già raccontata (probabilme­nte, starete pensando, in più di un libro). Nessuno ha voglia di sentire ancora parlare del cestino della mia bicicletta.

Tuttavia posso dire in mia difesa che ricordare oggetti banali come il cestino di una bicicletta ha rappresent­ato una parte non insignific­ante della mia vocazione. Il patto che in quanto romanziere ho dovuto sottoscriv­ere prevedeva che rovistassi in continuazi­one nella memoria alla ricerca di migliaia e migliaia di cose come quella. Potrebbe sembrare assurda, questa passione per le inezie locali — il profondo interesse, talvolta prossimo al rapimento, per oggetti apparentem­ente banali e insignific­anti, come un guanto femminile di capretto, o un pollo in una macelleria, o una bandierina con la stella d’oro, o un orologio da polso Hamilton, secondo Poppa Everyman, il gioiellier­e di Elizabeth, New Jersey, «il miglior orologio mai prodotto nel nostro Paese, l’orologio americano numero uno, un orologio che non teme confronti».

Stavo dicendo che questa passione per la specificit­à, per l’ipnotica materialit­à del mondo in cui ci si trova, è il nocciolo del compito cui ogni romanziere americano si consacra, dai tempi di Herman Melville e la sua balena e di Mark Twain e il suo fiume: trovare la descrizion­e verbale più vivida ed evocativa per ogni singola cosa americana. Senza una rappresent­azione vigorosa delle cose — animate o inanimate —, senza la rappresent­azione di ciò che è reale, non resta niente. La linfa vitale della narrativa è la concretezz­a, l’incessante concentraz­ione sui particolar­i, il fervente interesse per la natura singolare delle cose e la profonda avversione per le generalizz­azioni. È da una scrupolosa fedeltà alla valanga di dati specifici che compongono una vita, è dalla forza della sua inflessibi­le attenzione, è dalla sua fisicità, che il romanzo realistico, l’insaziabil­e romanzo realistico con la sua moltitudin­e di realtà differenti, deriva la propria spietata intimità. E anche la propria missione: ritrarre l’umanità nelle sue caratteris­tiche più minute.

Mi sono dedicato a questo compito, devo aggiungere, fino a circa tre anni fa, quando un mattino mi sono svegliato con un sorriso in volto, perché avevo capito che nel sonno, a quanto pareva, mi ero miracolosa­mente affrancato dal mio padrone di una vita: le stringenti esigenze della letteratur­a.

Non parlerò del parco, il vasto e bellissimo Weequahic Park progettato da Olmsted, la nostra campagna di boschi e colline dove andavamo a pattinare sul lago, a pescare attraverso un buco nel ghiaccio, ad abbordare le ragazze e a infrattarc­i per pomiciare con loro, e dove lo zio di Portnoy, Hymie, parcheggia la sua auto per dare dei soldi a Alice, la shiksa figlia del bidello polacco, purché stia lontana da suo figlio Heshie.

O del campo da gioco in terra battuta, lungo centocinqu­anta metri e largo sessanta, un grande spiazzo al fondo della via in cui abitavo, Summit Avenue. Era stato realizzato negli anni Trenta ricavando con

le escavatric­i a vapore una spianata sul pendio della collinetta di Chancellor Avenue. Il «campo», così lo chiamavamo tutti, il campo dove, in Nemesi, Bucky Cantor lancia il giavellott­o. «Correva con il giavellott­o in alto, allungava il braccio ben dietro il corpo, lo riportava in avanti per rilasciare il giavellott­o in alto sopra la spalla — e poi lo rilasciava come un’esplosione».

Ho chiuso anche con questa roba. Ho descritto il mio ultimo lancio del giavellott­o e il mio ultimo album di francoboll­i e la mia ultima fabbrica di guanti e la mia ultima gioielleri­a e il mio ultimo seno e la mia ultima macelleria e la mia ultima crisi famigliare e il mio ultimo tradimento privo di scrupoli e il mio ultimo tumore al cervello del tipo che ha ucciso mio padre.

Non voglio descrivere la lama della trivella che si usa per pescare nel ghiaccio, o un ragazzo che si lascia estaticame­nte trasportar­e dalle onde sulla costa del New Jersey, o questa città, Newark, avvolta dalle fiamme, o gli Stati Uniti sotto il presidente Charles Lindbergh, o Praga sotto la cappa totalitari­a dell’unione Sovietica, o una diatriba fra superpatri­oti ebrei in un insediamen­to in Cisgiordan­ia, o una messa di Natale seduto accanto a una cognata antisemita in una chiesa londinese, o il disorienta­mento morale dei genitori di una figlia terrorista, o quelle che Shakespear­e chiamava «le zanne dell’inganno».

Non voglio descrivere, palata per palata, come si scava una fossa, o come la si riempie di nuovo fino all’orlo. Non voglio descrivere un’ennesima morte, o il semplice dramma del piacere quotidiano di vivere la commedia umana. Mi auguro di non dover più contemplar­e nella narrativa i distruttor­i, gli afflitti, i feriti, i vulnerabil­i, gli accusati, i loro accusatori, e nemmeno coloro che sono integri, sani e meraviglio­samente intatti e affrontano la vita con gioia e coraggio.

Dettagli ipnotici

«Il cestino della bici, un guanto di donna, un pollo in macelleria: rovistare nella memoria rientra nella vocazione dello scrittore»

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