Io, Roth, romanziere spietato
«La linfa della scrittura? Un’attenzione inflessibile ai particolari concreti»
Stasera non metterò alla prova la vostra pazienza coi miei aneddoti sulla Osborne Terrace Library, la piccola biblioteca di quartiere a un chilometro e qualcosa da casa mia, e su come da bambino andassi fin lì ogni quindici giorni a prendere in prestito dei libri. Poi li portavo a casa, cinque o sei per volta, nel cestino della bici. Ma questa storia l’ho già raccontata (probabilmente, starete pensando, in più di un libro). Nessuno ha voglia di sentire ancora parlare del cestino della mia bicicletta.
Tuttavia posso dire in mia difesa che ricordare oggetti banali come il cestino di una bicicletta ha rappresentato una parte non insignificante della mia vocazione. Il patto che in quanto romanziere ho dovuto sottoscrivere prevedeva che rovistassi in continuazione nella memoria alla ricerca di migliaia e migliaia di cose come quella. Potrebbe sembrare assurda, questa passione per le inezie locali — il profondo interesse, talvolta prossimo al rapimento, per oggetti apparentemente banali e insignificanti, come un guanto femminile di capretto, o un pollo in una macelleria, o una bandierina con la stella d’oro, o un orologio da polso Hamilton, secondo Poppa Everyman, il gioielliere di Elizabeth, New Jersey, «il miglior orologio mai prodotto nel nostro Paese, l’orologio americano numero uno, un orologio che non teme confronti».
Stavo dicendo che questa passione per la specificità, per l’ipnotica materialità del mondo in cui ci si trova, è il nocciolo del compito cui ogni romanziere americano si consacra, dai tempi di Herman Melville e la sua balena e di Mark Twain e il suo fiume: trovare la descrizione verbale più vivida ed evocativa per ogni singola cosa americana. Senza una rappresentazione vigorosa delle cose — animate o inanimate —, senza la rappresentazione di ciò che è reale, non resta niente. La linfa vitale della narrativa è la concretezza, l’incessante concentrazione sui particolari, il fervente interesse per la natura singolare delle cose e la profonda avversione per le generalizzazioni. È da una scrupolosa fedeltà alla valanga di dati specifici che compongono una vita, è dalla forza della sua inflessibile attenzione, è dalla sua fisicità, che il romanzo realistico, l’insaziabile romanzo realistico con la sua moltitudine di realtà differenti, deriva la propria spietata intimità. E anche la propria missione: ritrarre l’umanità nelle sue caratteristiche più minute.
Mi sono dedicato a questo compito, devo aggiungere, fino a circa tre anni fa, quando un mattino mi sono svegliato con un sorriso in volto, perché avevo capito che nel sonno, a quanto pareva, mi ero miracolosamente affrancato dal mio padrone di una vita: le stringenti esigenze della letteratura.
Non parlerò del parco, il vasto e bellissimo Weequahic Park progettato da Olmsted, la nostra campagna di boschi e colline dove andavamo a pattinare sul lago, a pescare attraverso un buco nel ghiaccio, ad abbordare le ragazze e a infrattarci per pomiciare con loro, e dove lo zio di Portnoy, Hymie, parcheggia la sua auto per dare dei soldi a Alice, la shiksa figlia del bidello polacco, purché stia lontana da suo figlio Heshie.
O del campo da gioco in terra battuta, lungo centocinquanta metri e largo sessanta, un grande spiazzo al fondo della via in cui abitavo, Summit Avenue. Era stato realizzato negli anni Trenta ricavando con
le escavatrici a vapore una spianata sul pendio della collinetta di Chancellor Avenue. Il «campo», così lo chiamavamo tutti, il campo dove, in Nemesi, Bucky Cantor lancia il giavellotto. «Correva con il giavellotto in alto, allungava il braccio ben dietro il corpo, lo riportava in avanti per rilasciare il giavellotto in alto sopra la spalla — e poi lo rilasciava come un’esplosione».
Ho chiuso anche con questa roba. Ho descritto il mio ultimo lancio del giavellotto e il mio ultimo album di francobolli e la mia ultima fabbrica di guanti e la mia ultima gioielleria e il mio ultimo seno e la mia ultima macelleria e la mia ultima crisi famigliare e il mio ultimo tradimento privo di scrupoli e il mio ultimo tumore al cervello del tipo che ha ucciso mio padre.
Non voglio descrivere la lama della trivella che si usa per pescare nel ghiaccio, o un ragazzo che si lascia estaticamente trasportare dalle onde sulla costa del New Jersey, o questa città, Newark, avvolta dalle fiamme, o gli Stati Uniti sotto il presidente Charles Lindbergh, o Praga sotto la cappa totalitaria dell’unione Sovietica, o una diatriba fra superpatrioti ebrei in un insediamento in Cisgiordania, o una messa di Natale seduto accanto a una cognata antisemita in una chiesa londinese, o il disorientamento morale dei genitori di una figlia terrorista, o quelle che Shakespeare chiamava «le zanne dell’inganno».
Non voglio descrivere, palata per palata, come si scava una fossa, o come la si riempie di nuovo fino all’orlo. Non voglio descrivere un’ennesima morte, o il semplice dramma del piacere quotidiano di vivere la commedia umana. Mi auguro di non dover più contemplare nella narrativa i distruttori, gli afflitti, i feriti, i vulnerabili, gli accusati, i loro accusatori, e nemmeno coloro che sono integri, sani e meravigliosamente intatti e affrontano la vita con gioia e coraggio.
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«Il cestino della bici, un guanto di donna, un pollo in macelleria: rovistare nella memoria rientra nella vocazione dello scrittore»