Corriere della Sera

Il narratore senza gli artifici del narratore

- di Giulia Ziino

«Eccomi qui, senza i travestime­nti, le invenzioni e gli artifici del romanzo. Eccomi qui, privo degli stratagemm­i e spogliato delle maschere che mi hanno consentito quel tanto di libertà nell’immaginazi­one che sono riuscito ad avere come scrittore di narrativa». Così Philip Roth nella prefazione che apre Perché scrivere?, una raccolta, in uscita martedì per Einaudi, di 37 fra «saggi, conversazi­oni e altri scritti» — selezionat­i dall’autore — pubblicati o pronunciat­i (discorsi per ricorrenze, interviste rilasciate a giornali) tra il 1960 e il 2013. In pratica l’intera vita da narratore di Roth, che aveva esordito nel ’59 con Goodbye, Columbus ed è morto lo scorso maggio, sei anni dopo l’addio alla scrittura. Qui c’è il Roth della nonfiction: saggista, lettore di sé stesso e di altri, impegnato in «chiacchier­e di bottega» con colleghi come Primo Levi, Milan Kundera, Edna O’brien. Un filo che corre parallelo a quello della narrativa, su cui Roth spesso riflette, come nel brano che pubblichia­mo in questa pagina, tratto dal discorso La spietata intimità della narrativa pronunciat­o al Newark Museum il 29 marzo 2013, per i suoi 80 anni. Nel 2017, il 3 settembre, in occasione dell’uscita di Why Write? negli Stati Uniti, «la Lettura» aveva letto il libro alla vigilia dell’arrivo nelle librerie americane: quella volta Roth aveva accettato di rispondere alle domande di Livia Manera. Una era proprio «perché scrivere?». «Il meglio che posso dire — aveva risposto Roth a “la Lettura” — è che ho scritto perché volevo vedere se ne ero capace».

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