Moore corrosivo ritrova la verve grazie a Trump
Si può considerare una specie di «effetto collaterale»: l’elezione di Donald Trump è riuscita a rianimare il declinante cinema politico statunitense. Come quello di Michael Moore che con Fahrenheit 11/9 (al cinema solo il 22, il 23 e il 24 ottobre, per essere poi trasmesso su La7) ha ritrovato la verve e la corrosività dei suoi tempi migliori. Così, dopo aver mostrato il meglio del peggio sul presidente Usa (con alcuni inquietanti passaggi sulla passione per la figlia Ivanka), sposta l’obiettivo sulle ragioni di un successo che nessuno sembrava prevedere. Originario di Flint, nel Michigan, il regista usa i problemi idrici della sua città (un acquedotto che porta il piombo nelle case) per dimostrare come i membri del Partito Democratico, con Obama in testa, non si siano impegnati a sufficienza per contrastare le politiche repubblicane, così da far aumentare le astensioni e favorire la demagogia trumpiana. Questa volta, però, non si limita a smontare il passato di cui racconta contraddizioni, errori e compromessi. Sceglie anche di dare voce a chi potrebbe rinnovare lo stagnante mondo della politica Usa, a cominciare dagli studenti che contestavano la diffusione delle armi e dagli insegnanti che rischiano la galera pur di fare sciopero, per chiudere con una leva di nuovi e giovani militanti che sembrano promettere quell’«incendio» che Moore vede sempre più necessario per far cambiare direzione politica alla sua America.