Da Montanelli alla Brexit: frammenti di vita
L’anticipazione Da giovedì 25 per Solferino «Italiani si rimane» di Beppe Severgnini: un po’ autobiografia e un po’ racconto di come è cambiato il mondo dal ’79 a oggi «Gli esordi? Le elezioni, ma scrissi di miss»
Il mio primo articolo è uscito domenica 21 gennaio 1979 su «La Provincia» di Cremona. Avevo ventidue anni e frequentavo il terzo anno di università a Pavia. Il direttore si chiamava Mauro Masone. Lo avevo perseguitato al telefono per mesi, finché mi aveva detto: «Prova a scrivere qualcosa». Argomento: la grande nevicata a Crema. Mi sembrava il titolo di un tema delle elementari, ma ho fatto finta di niente.
Gli ho mandato un pezzo intitolato Carrozzieri a Tahiti, dove spiegavo che quei bravi artigiani, rimettendo in sesto le automobili che la gioventù cremasca sfasciava facendo sci nautico sulla neve, erano destinati ad arricchirsi, e avrebbero potuto permettersi una vacanza in Polinesia.
Il direttore Masone non ha battuto ciglio. Ha pubblicato e, forse perché mi piaceva il freddo, mi ha chiesto di raccontare i campionati cremaschi di sci, appuntamento sportivo e mondano che si svolgeva quell’anno nella località di Borno, in Val Camonica. Gli ho spedito un pezzo in cui descrivevo la lotta feroce tra le mamme dei concorrenti, che non sapevano sciare, ma si detestavano in modo competitivo. La gara — l’unica interessante — era tra loro.
Il direttore ha espresso alcune perplessità — perché, di grazia, non facevo mai quello che mi veniva chiesto? — e ha fatto trascorrere qualche settimana, lasciandomi scrivere quello che volevo. Poi, all’inizio di maggio, mi ha convocato a Cremona e mi ha chiesto di occuparmi delle elezioni in arrivo. Ho accettato con entusiasmo. L’articolo iniziava così:
«Mi hanno detto: “Severgnini, è tempo di elezioni, smetti di scrivere stupidaggini e parlane un po’, che è meglio”. Confesso d’esser rimasto sorpreso: non pensavo che queste elezioni potessero interessare i giornali. Diamine, prima mi dicono: “Beppe sii serio quando scrivi”, e poi vengono a chiedermi certe cose. Comunque, sono andato».
Un sabato sera, fingendo di aver frainteso le istruzioni, mi sono presentato all’elezione di Miss Body Leopardo, in programma presso la discoteca OK Club di Bagnolo Cremasco, dove non credo avessero mai ricevuto la richiesta di accredito di un giornalista. Erano elezioni anche quelle, in fondo.
Non ero un frequentatore abituale di discoteche. Ma negli anni della Febbre del sabato sera era impossibile evitarle. Diciamo che ci andavo di tanto in tanto, rimpiangendo ogni volta d’esserci andato. Somigliavo poco a John Travolta; nel corteggiamento credevo che la mia arma migliore fosse la conversazione, e mi davo ogni volta dell’imbecille per essere finito, a pagamento, in una bolgia dove era impossibile parlare. Quella volta, però, era diverso. La serietà dello scherzo — confondere le miss con gli onorevoli — mi impediva di mischiare il dovere col piacere. Avrei privilegiato risolutamente il piacere, che era quello di scrivere un articolo per «La Provincia». Il dovere di un ventiduenne — ammirare le ragazze — poteva aspettare. Le ragazze con il body leopardo, oltretutto, non sono mai state il mio tipo.
La discoteca OK Club si trovava sulla Paullese, la statale per Milano. Scritte al neon, parcheggio affollato di muscoli e tacchi a spillo. Ho chiesto aiuto a un amico, Emilio, che si è presentato con un baule a tracolla: era convinto che lo facesse sembrare un vero fotoreporter, non uno studente d’ingegneria del Politecnico.
Le candidate erano nove. Presentava la serata un baffuto quarantenne piacentino — giacca e cravatta, pantalone chiaro a zampa d’elefante — e diceva a tutte: «Ragassa, te c’hai delle sans» (dove «sans», ho scoperto, stava per chances, ovvero possibilità). Componevano la giuria: un parrucchiere per signora, un’indossatrice che indossava abbastanza poco, una
hostess e un manager industriale, che restava vago sulla sua attività.
Le nove concorrenti, dopo la presentazione di rito alla stampa (di cui ero l’unico, corteggiato rappresentante), sono sparite, per ricomparire subito dopo con i body leopardati, pronte per la passerella. Silenzio concentrato del pubblico, seguito da qualche commento. Entusiasmo dell’amico ingegnere, fotoreporter per la giornata.
Mentre la giuria era ritirata per decidere, il presentatore emiliano ha cominciato a proporre strani giochi, chiedendo al pubblico di portargli prima una moneta da venti lire, poi un reggiseno, quindi uno slip. Quando, con gli occhi che brillavano, stava per proporre qualcosa d’altro, è arrivato l’annuncio delle vincitrici, trascinate sul palco a ricevere un mazzo di fiori e l’applauso dei fidanzati. Alla domanda se era contenta del piazzamento, la terza classificata ha risposto: «L’importante è partecipare», guadagnandosi l’applauso del pubblico, colpito dalla sua sintetica spiritualità.
Questo più o meno ho scritto, sotto il titolo È tempo d’elezioni. Alla fine del pezzo riconoscevo l’errore, ma concludevo che, tra le aspiranti miss e gli aspiranti onorevoli, io votavo le prime: avevano meno pretese ed erano più divertenti. Il direttore della «Provincia» s’è trovato a dover decidere: il giovane neocollaboratore era un pazzo oppure aveva fantasia. Ha optato per la fantasia, mi ha pubblicato l’articolo ed è iniziata la mia carriera di studentegiornalista, diversa da quella di studente-lavoratore. Quest’ultimo, infatti, svolge un’attività (il lavoro) per potersi permettere l’altra (lo studio). Io scrivevo per distrarmi dalla facoltà di Giurisprudenza, che non trovavo difficile, semmai un po’ noiosa, e priva di quella che, già allora, mi sembrava una caratteristica interessante della professione giornalistica: esser pagati per viaggiare, vedere, capire. E, magari, divertirsi.
Ricordo il primo compenso: 5.000 lire. Il reddito (lordo) del 1979 è stato 262.250 lire (è sceso a 250.000 lire nel 1980 e a 220.000 lire nel 1981, quando sono partito per il servizio militare). La routine era questa: battere l’articolo con una Olivetti lettera 32, correggerlo a mano, ribatterlo, metterlo in una busta arancione — le prendevo nello studio di mio padre notaio, erano quelle per i testamenti — e portarla alla stazione ferroviaria di Crema. Da qui partiva il fuori-sacco destinato alla redazione della «Provincia» di Cremona, distante quaranta chilometri. Là il mio pezzo sarebbe stato ribattuto, composto in piombo e stampato, in modo da uscire la domenica, nella pagina denominata «Crema e il Cremasco». La mia rubrica aveva per titolo «Parlar sul Serio», e sfruttava un gioco di parole — Serio è il fiume di Crema — che avrebbe dovuto provocare il mio allontanamento da qualsiasi organo di stampa. Ma ero fortunato. Qualcuno, alla «Provincia», apprezzava le cose che scrivevo. Non sapevo cosa pensassero i cremaschi, ma lo avrei scoperto di lì a poco.
Elaborare idee — suggerirle, coltivarle, contestarle — era un esercizio continuo, e sembrava appassionare tutti. Chi era incaricato
Il caffè all’«economist» Si prendeva in una stanzetta senza finestre. Era un caffè isolano, una brodaglia, eppure mi affezionai: era la mia rassicurazione liquida
di scrivere un leader — così si chiamano i commenti all’inizio del giornale — entrava nell’ufficio di un collega competente sul tema, e chiedeva di ragionare insieme (ho riportato l’abitudine in Italia, dove mi guardavano come se fossi lì per rubare la biro). Una gerarchia esisteva — c’era un direttore, un paio di vicedirettori, i responsabili delle sezioni (Britain Editor, Us Editor, Asia Editor) e delle aree tematiche (Foreign Editor, Business Editor, Books Editor) — ma una buona idea veniva sempre apprezzata. Se avevi una buona idea, all’«economist», potevi fare quasi tutto.
L’occasione canonica per presentare proposte e suggerimenti era la riunione del lunedì mattina, in cui s’impostava il giornale. Dietro l’apparente informalità le regole esistevano: bisognava capirle. I posti a sedere, per esempio, non erano assegnati, in teoria. Di fatto, quelli davanti erano riservati ai colleghi più autorevoli. I più giovani e i nuovi arrivati, compreso il sottoscritto, potevano sedersi dietro, dove volevano. Anche sui caloriferi — termoconvettori, per essere precisi —, una cosa che non avevo mai visto. Conoscevo lo stoicismo britannico, ma lo spettacolo di colleghe e colleghi che si congelavano i glutei d’estate, e se li lessavano d’inverno, era nuovo e affascinante.
La mia preoccupazione era la scrittura. Sono nato in Italia da genitori italiani, ho frequentato scuole italiane, l’inglese l’ho imparato studiando, leggendo, viaggiando. Come posso scrivere per il settimanale più prestigioso del mondo? mi chiedevo, con una certa ansia. Mi preoccupavano le forme idiomatiche, la sintassi, l’ortografia. Poi, un giorno, un collega di ottima scrittura e notevole reputazione — John Parker, oggi a capo dell’ufficio di Pechino — è entrato nella mia stanza, si è seduto alla scrivania e mi ha chiesto: «Beppe, how do you spell “maintenance”?», come si scrive maintenance (manutenzione)? Un attimo, ho pensato: questo ha studiato a Oxford. E chiede a me, nato a Crema (Cremona), come si scrive una parola inglese? Lo sapevo, gliel’ho detto. Da quel momento ho superato ogni complesso di inferiorità. Oggi ho il sospetto che John l’abbia fatto apposta: per rassicurarmi. Certi inglesi sono capaci di qualunque cosa.
Dell’«economist» mi piacevano molti aspetti, oltre al panorama e ai colleghi. Mi piacevano i riti quotidiani, per esempio. Il caffè si andava a prendere in una stanzetta al centro del tredicesimo piano, senza finestre. Le tazze erano condivise, ma andavano risciacquate dopo l’uso: lasciarle sporche era considerato un sacrilegio. Si trattava di un caffè isolano, una brodaglia trasparente; eppure mi ci sono affezionato. Quel caffè era la mia rassicurazione liquida. Un aiuto ai pensieri. Quello che gli scrittori americani un tempo chiedevano all’alcol, e i giornalisti italiani continuano a pretendere dall’espresso, gli inglesi lo ottenevano da quell’acqua marroncina. Ogni tanto cambiava sapore, e la chiamavano tè.
Mi piaceva il nuovo biglietto da visita con il logo rosso «The Economist» — quarantotto ore dopo il mio arrivo mi era già stato consegnato (al «Corriere della Sera» è arrivato dopo ventidue anni!). Mi piacevano le abitudini: lunedì riunione, martedì scrittura, mercoledì buffet lunch in redazione e chiusura delle pagine, giovedì mattina revisione dei pezzi, chini sulle bozze. Il venerdì — giorno di uscita in edicola — si cominciava a pensare al numero successivo. Al mattino apparivano borse, valigie, sacche da golf: la prova che i colleghi avevano programmi per il weekend. Intorno alle tre del pomeriggio era come se qualcuno avesse sparato un colpo di pistola in mezzo a un branco di gatti: scomparivano tutti. Restavo io, a guardare Londra di fuori e la mia gioia di dentro. Stavo imparando cose nuove, ed era una sensazione bellissima.