Le carte buone degli Appennini
La catena montuosa più lunga unisce alla storia e alla natura la sua forza economica Un Atlante lungo i 1300 km ne dà un ritratto sorprendente
li Appennini non finiscono mai. Neanche di confondere. Cominciano dal colle di Cadibona, a ovest di Genova, e terminano in Sicilia. E ogni regione rivendica il suo: il Ligure, l’abruzzese, il Sannita, il Campano, il Calabro, il Siculo. Talvolta in condivisione con la regione limitrofa: il Tosco-emiliano e il Toscoromagnolo, l’umbro-marchigiano. Per tacere dei subappennini che, per mimetizzarsi meglio, in qualche caso si chiamano Alpi (Apuane), e degli antiappennini, dove si raccapezzano agevolmente solo i geologi e i cartografi.
Sono monti abbastanza giovani, con poche decine di milioni di anni, non molto alti, ma orgogliosi, che hanno fama di essersi mantenuti selvaggi, largamente disabitati, popolati soprattutto di misteri, innervati di leggende e, per ampie zone, poco accessibili, se non a esperti e infaticabili camminatori. E, a differenza delle Alpi, sono tutti italiani, se si eccettua il Monte Titano a San Marino.
Trasudano Storia e storie. La Via Francigena ne è una dei testimoni principali fin dal Medio Evo, quando ha cominciato a sovrapporsi ai selciati romani. Alcune vicende, particolarmente tragiche dell’ultima guerra, sono valse la medaglia d’oro al valor militare a intere cittadinanze, come quelle di Marzabotto, nell’appenino Bolognese, Montefiorino, nel Modenese o di Stazzema, nelle Apuane, teatro della ferocia nazista.
La toponomastica è un’antologia di racconti tradizionali, una mappa di indizi su episodi realmente accaduti, disfide disputate, fuorilegge esistiti, e infine dimenticati: la montagna della Femminamorta, a est della Valle delle Tagliole; e, per par condicio, la località Omomorto, nel Mugello; le Caldaie del Latte e la Rocca del Drago, formazioni rocciose in Aspromonte; il Passo Cattivo, nell’appennino Umbro-marchigiano e della Sentinella, in quello Campano. O il Pizzo Tre Vescovi, a est della Val di Panico. O, ancora, il piccolo comune di Capracotta che non soltanto ha avuto l’onore di una citazione nell’«addio alle armi» di Ernest Hemingway, ma ha anche polverizzato, tre anni fa, il record di nevicate del Colorado, sfrattando Silver Lake (a ovest di Denver) dal Guinness dei Primati, con oltre due metri di neve accumulati in 17 ore.
Eppure, per rendere l’idea della bellezza dei Monti Sibillini, si ricorre al soprannome di «Tibet italiano», come se il paesaggio dell’himalaya fosse più famigliare agli italiani di quello appenninico, e occorresse un paragone esotico per immaginarselo. Probabilmente è proprio così. L’autostrada del Sole ha cancellato, da mezzo secolo, la necessità di scollinare per passi e valichi quando si attraversa longitudinalmente la Penisola, lasciando intravvedere dai finestrini la dorsale appenninica come un fragile sfondo decorativo di cartapesta, scosso troppo spesso dai terremoti. Poveri «monti azzurri» di Leopardi.
«Ma qualcosa sta già cambiando rapidamente» assicura Ermete Realacci, presidente di Symbola, Fondazione per le qualità italiane, che ha appena realizzato, con la collaborazione di 40 esperti, il primo Atlante sulla catena montuosa più grande d’italia, 1.300 chilometri contro i 1.200 delle Alpi. Una superficie complessiva di 94.375 chilometri quadrati, un terzo del territorio nazionale, superiore a quello del Portogallo, dell’ungheria o dell’austria. Interessa 14 regioni su 20, include 2.157 comuni, ospita quasi 10 milioni e mezzo di abitanti che, con l’arrivo di 663 mila immigrati negli ultimi 25 anni, non conoscono il problema del calo demografico.
Inoltre: l’appennino è, a livello europeo, un modello di protezione ambientale, con il suo 16% abbondante di territorio tutelato, sotto l’egida di dodici parchi nazionali e 36 parchi regionali. Un eden di boschi copre poco meno del 40% della catena appenninica, per 3 milioni e 700 mila ettari. L’espansione delle foreste non è più quella prodigiosa del periodo tra gli anni 60 e 90, ma negli ultimi cinquant’anni è stata del 51%.
L’atlante non è una guida, e tantomeno un manuale per escursionisti, precisa Realacci. Promosso dai Parchi nazionali delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, e dell’appennino Tosco-emiliano, costituisce la prima visione d’insieme di un’area che geograficamente ed economicamente rappresenta una quota rilevante del paese. Qualche cifra? «Il 14% della ricchezza italiana proviene dall’appennino. In valore assoluto, il Pil genera 203 miliardi di euro. Le imprese appenniniche sono quasi un milione, il 17% del totale nazionale. Dall’appennino proviene il 51% della produzione agroalimentare certificata Dop e Igp». Ossia: Denominazione di origine protetta e Indicazione geografica protetta. Per esempio, le lenticchie di Castelluccio di Norcia, il pecorino romano e toscano, il miele della Lunigiana e il lardo di Colonnata.
«Qualcosa sta finalmente cambiando - prosegue Realacci - anche dal punto di vista dell’interesse dei turisti non solamente italiani. Ma ciò che Symbola si pone come obiettivo è di cercare nell’italia che c’è le radici del futuro. Il mondo si trasforma, le sfide tecnologiche si moltiplicano, e vanno accettate, però non bisogna perdere la propria anima. E mettendo in campo i propri talenti. Come diceva Carlo Maria Cipolla, storico ed economista, la missione dell’italia è di produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciano al mondo. I nostri primati dell’export sono legati proprio a questo».
Così la carta di Fabriano, le ceramiche umbre, abruzzesi (di Castelli) e calabresi, il merletto a tombolo di Isernia, i gioielli dell’aretino entrano negli indici che permettono all’atlante di quantificare il patrimonio degli Appennini. Il web ha aiutato anche a scoprire che cosa preferiscono i turisti della «spina dorsale» italiana: i sudditi della regina Elisabetta II optano per le escursioni, i rumeni mettono al primo posto la buona cucina, gli italiani cercano eventi culturali, gli spagnoli si concentrano sull’arte, i francesi fotografano i panorami.
È la bellezza della natura a mettere tutti d’accordo. E, se non è l’incanto estetico, sono i segreti ad aver ispirato i poeti e gli scrittori che hanno legato i loro nomi a qualche angolo di Appennino. Dante Alighieri era stato affascinato dalla Pietra di Bismantova, quello strano altopiano di 1.047 metri scoscesi, in provincia di Reggio Emilia, che ha ispirato il Monte del Purgatorio, a gradoni, della Divina Commedia. Andrea da Barberino si è lasciato trasportare dal mito della Sibilla Appenninica per comporre le avventure del suo «Guerrin Meschino», nel Quattrocento.
Orazio, nelle sue Odi, e Virgilio, nell’eneide, avevano già evocato l’enigmatico, solitario profilo del Monte Soratte, in mezzo alla Valle del Tevere, senza immaginare che, nel 1937, gli ingegneri militari di Mussolini avrebbero fatto scavare nelle sue viscere un «rifugio strategico», come ha testimoniato uno di loro ad Alberto Osti Guerrazzi in «Misteri e segreti dell’appenino» (Edizioni Il Lupo). Dopo l’8 settembre, i quattro chilometri di gallerie diventarono il bunker dei tedeschi comandati da Kesserling che, secondo quanto si favoleggia da allora, vi avrebbe nascosto l’oro depredato alla Banca d’italia e alla comunità ebraica romana. La caccia al tesoro, nel dopoguerra, fu infruttuosa.
Meglio mettersi sulle tracce del paradiso terrestre di Tiziano Terzani, a Orsigna, nel Pistoiese, dove il suo albero con gli occhi continua ad accogliere i pellegrini dell’appennino.
Per rendere l’idea della bellezza dei monti Sibillini si ricorre al soprannome di Tibet italiano. Come se il paesaggio asiatico fosse più familiare di quello appenninico. Forse è così. L’autostrada del Sole ha cancellato nel tempo la conoscenza di colline e valichi
Dieci milioni e mezzo di abitanti (non diminuiti negli ultimi 25 anni grazie agli immigrati), il 14% della ricchezza italiana, oltre il 16% del territorio tutelato. Realacci di Symbola: «Qui si può sperimentare il futuro senza perdere la propria anima»