Così Ingrid ritrova la voce: salvate Sophie, rapita come me
La nuova battaglia di Betancourt
E’ come tornare nella giungla, dove per sei anni e mezzo è stata legata a un albero, incatenata, picchiata. Il segno delle violenze subite da Ingrid Betancourt sta dentro le lacrime trattenute a fatica, e facilmente buca lo schermo per le teleconferenze fino ai 7 giudici (4 donne) riuniti nella sala del Tribunale Speciale per la Pace (JEP) di Bogotà, che sembra un’aula di scuola più che di giustizia.
Lezioni di sopravvivenza che non le fanno dimenticare chi vive ora lo stesso dramma: Ingrid chiede al mondo di non dimenticare le vittime dei sequestri. In questi giorni la sua voce risuona per Sophie Pétronin, 73 anni, prigioniera da due anni in Mali. Non l’ha mai incontrata, ma a questo serve uscire vivi da un inferno: riconoscere i dannati dimenticati in un altro.
La più famosa degli 8.100 ostaggi passati nelle mani delle Farc dal 1993 al 2012 ha già raccontato la sua odissea. Ma questa volta, a 10 anni dalla liberazione da parte dei mitivi litari, è speciale: in base agli accordi di pace del 2016 la testimonianza delle vittime come Ingrid, che oggi vive in Europa (a Oxford sta ultimando un dottorato in teologia), si mescoleranno ai racconti dei carcerieri e degli ex comandanti, quei 31 capi delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia che dopo 50 anni hanno deposto le armi. A luglio in tre, compreso il capo dei capi Rodrigo Londoño, sono comparsi orgogliosi e sorridenti, con mazzi di fiori rossi in mano all’apertura della Corte, che dovrebbe lavorare per 15 anni. Nella sua deposizione Ingrid non ha sorriso una volta, raccontando di quattordicenni premiati dai comandanti quando abusavano delle prigioniere. Il futuro di questi capi si annuncia mite: i condannati per omicidio, violenza sessuale o sequestro saranno puniti al massimo con 5-8 anni di lavori socialmente utili (mentre chi sarà scoperto a mentire rischia pene detentive di 20 anni). Chiedono a Betancourt che cosa pensi della punizione dei colpevoli, e lei risponde senza ombra di sdegno: «Dovrebbero fare qualcosa di concreto per le vittime, per i bisogni di vedove e orfani che vivono in povertà. Dovrebbero per esempio ricostruirgli la casa, con le loro stesse mani».
La guerra delle Farc ha fatto 220 mila morti. Settemila guerriglieri hanno smobilitato un anno fa e in 4.600 hanno già testimoniato davanti al JEP, così come 1.800 governa- coinvolti nella violazione dei diritti umani. Il Tribunale Speciale per la Pace vanta precedenti illustri (e non sempre riusciti), come la Commissione per la Verità e la Riconciliazione nel Sudafrica post-apartheid. Raccontando delle sofferenze patite (le finte esecuzioni dopo i tentativi di fuga, le marce con le catene ai piedi) l’ex candidata del partito Ossigeno (rapita durante la campagna presidenziale del 2002) risponde alle domande sulla difficile pacificazione, se non sull’impossibile perdono: «L’unico modo per superare questo orrore è separare le persone dalle loro azioni». E «come da prigioniera ho scoperto un coraggio e una forza che non pensavo di avere, così credo possa esserci un lato di luce in coloro che ci hanno fatto tanto male».
Se c’è un’apertura di credito verso gli aguzzini di ieri, in questa donna che mostra le cicatrici a testa alta non può mancare un’attenzione per le «sorelle» di oggi, per chi sta vivendo lo stesso dramma. Poche settimane fa a Parigi, sua città natale (il padre era un diplomatico), nel silenzio generale Betancourt ha lanciato un appello per Sophie Pétronin, 73 anni, operatrice umanitaria rapita in Mali. Ha un tumore, soffre di paludismo. In lei Ingrid rivede le sue sofferenze, quando le Farc godevano nel privarla di medicine per la malaria e altre malattie tropicali. L’invito al presidente Macron (tenere vivo il dialogo con familiari e sequestratori) è come se venisse dalla giungla colombiana, con un suono di catene.