La mia guerra con la mafia
Paolo Borrometi, sotto scorta dal 2014: storia vera di un cronista scomodo
Uno sente dire Pachino e pensa ai pomodori, al sole, alla terra che produce gusto e benessere; un pezzo di Sicilia dove il piacere della gastronomia si lega all’arte, alla storia e da ultimo anche alle avventure del commissario Montalbano. Una Sicilia diversa da quella dei morti di mafia e delle stragi, generalmente assimilate a Palermo e dintorni, al massimo Corleone. Ma è una differenza falsa.
I mafiosi (e i morti ammazzati) esistono anche dall’altra parte dell’isola, a Est come a Ovest, nelle province lontane e apparentemente felici di Ragusa e Siracusa, tra il barocco, gli agrumi e altre ricchezze a volte malate; e hanno a che fare anche con i pomodori e lo sfruttamento della manovalanza che prima era locale, poi africana e oggi dell’europa orientale. Una piovra meno visibile e pressoché sconosciuta ma ugualmente insidiosa e pervasiva, che ha allungato i suoi tentacoli sul centro di commercio ortofrutticolo più importante del Meridione, il secondo d’italia: quello di Vittoria, affari per 400 milioni di euro all’anno. Che non si esaurisce nella coltivazione, vendita e distribuzione dei pomodorini e altri prodotti, ma si estende allo smaltimento illecito della plastica utilizzata nelle serre, e ulteriori traffici clandestini. Un business talmente ricco da spingere il pentito di un clan (protagonista di un agguato dove per errore fu uccisa la persona sbagliata), a uscire dal programma di protezione, tornare nella città da cui era fuggito e rientrare nel giro. Senza temere ritorsioni. Una giravolta inimmaginabile dappertutto tranne che in quel lembo di Sicilia, perché «a Vittoria tutto è possibile», scrive Paolo Borrometi, il giovane cronista che ha cominciato a raccontare le storie di mafia e malaffare della sua terra, per questo ha ricevuto minacce di morte sempre più insistenti e dal 2014, quando aveva 31 anni, s’è dovuto trasferire a Roma, costretto a vivere sotto scorta. Una condanna doppia: quella delle cosche locali che con cadenza puntualissima, ad ogni denuncia comparsa sui giornali e le testate online che ospitavano i suoi articoli (prima che approdasse all’agenzia Agi e a Tv2000), facevano seguire insulti e promesse di metterlo a tacere per sempre; e quella di una vita snaturata dalle misure di sicurezza, dopo un pestaggio e l’incendio della porta della casa in cui viveva con i genitori.
Ma Paolo non ha ceduto alle intimidazioni né alla paura, ha continuato a scrivere e — divenuto un personaggio suo malgrado — a parlare nelle scuole e nei luoghi in cui lo invitano. Dove talvolta è capitato, come ad Avola, che la pronuncia del nome di un boss davanti agli studenti abbia provocato la reazione indignata dei parenti e la richiesta di diritto di replica da parte dell’avvocato: «Una sorta di surreale par condicio fra antimafia e mafia», commenta lui.
È tutto scritto in Un morto ogni tanto. La mia battaglia contro la mafia invisibile, in uscita oggi per Solferino, il libro in cui Borrometi racconta la propria esperienza. Un diario che svela gli af- fari e i delitti dei clan che comandano, si combattono o si alleano in quella parte di isola quasi mai associata al crimine organizzato, e come le sue cronache abbiano prima smascherato un potere occulto e poi ribaltato la sua stessa esistenza. Trasformandolo in una sorta di «testimone protetto» colpevole, agli occhi dei mafiosi, di aver acceso una luce e attirato l’attenzione su trame cresciute al buio e nel silenzio, che i boss volevano preservare. Non è andata così, e il libro di Borrometi rappresenta il passo successivo dello stesso percorso di denuncia, un pessimo affare per la mafia della Silia orientale. Perché adesso nessuno potrà più dire di non sapere. Tutti possono conoscere i retroscena di omicidi crudeli almeno quanto quelli consumati a Palermo negli anni della «guerra di mafia» (che s’è combattuta pure sull’altro versante); compreso quello commesso in provincia di Siracusa, con il cadavere seppellito ma riesumato a causa degli scavi che potevano farlo ritrovare, fatto a pezzi, preso a martellate e quasi sminuzzato, infine disseminato qua e là per impedire che qualcuno potesse ricomporlo e riconoscerlo; o quello di un pregiudicato calabrese ucciso nel centro di Vitoria, a testimonianza delle alleanze con la ‘ndrangheta per questioni di droga. Ma anche sulle infiltrazioni e le collusioni con la pubblica amministrazione: dal netturbino che gestiva gli spazi della campagna elettorale a Scicli ai legami tra malavitosi e candidati ai Consigli comunali, voti comprati e venduti, intrecci tra mafia, politica e imprenditori che spaziano da Augusta a Noto, ricostruiti anche grazie all’irresistibile tentazione di boss e gregari di mettersi in mostra su Facebook (che poco si concilia con l’omertà mafiosa, ma sarà un segno dei tempi).
«Di volta in volta, a seconda delle mie inchieste, sono stato accusato di scrivere per danneggiare o favorire questo o quell’altro partito; peccato che i partiti, nelle mie inchieste, li abbia toccati tutti», sottolinea Borrometi, che dalle indagini giudiziarie ha tratto frasi dai significati fin troppo eloquenti, visto il contesto in cui sono state intercettate: «Io mi appoggio a te, tu ti puoi appoggiare a me», «Mangiamo tutti e ridiamo tutti», fino a quella che ha dato il titolo al libro: «Un morticeddu ogni tanto vedi che serve». In quel caso il «morticello» doveva essere lui, il giornalista che tiene la luce accesa.
Ad Avola, in una scuola, aver fatto il nome di un boss gli ha causato la richiesta di replica della famiglia: «Una surreale par condicio»