Corriere della Sera

Le nevrosi del mondo letterario Siti va alle radici della cattiveria

In «Bontà» (Einaudi Stile libero) la disperazio­ne di un uomo ricco e ambizioso

- Pierluigi Battista

Walter Siti è un saggista, uno scrittore di romanzi, un critico letterario. In questo «racconto lungo» (così lo chiama), intitolato Bontà e pubblicato da Einaudi Stile libero, fonde i vari registri di scrittura e ambienta nella sede di una casa editrice, le ansie e i risentimen­ti, i dolori e le competenze di un editore minato da una sofferenza esistenzia­le profonda e irrimediab­ile. Siti sa giocare su mille piani, passa dalla dimensione ironica a quella della tragedia disperata, dallo sguardo quasi divertito sulle miserie e le piccinerie del mondo editoriale a quello gravato da un pessimismo radicale e senza redenzione. Tanti racconti, in un unico racconto (lungo).

Il lato ironico è tracciato dalle incursioni di Siti nei meandri delle nevrosi del mondo letterario. E tutto con il gusto di guardare di nascosto i nomi famosi del milieu intellettu­ale che ruota attorno all’editoria, le star della letteratur­a, gli assidui frequentat­ori, autori e manager, delle case editrici, i protagonis­ti citati per nome e cognome a suggerire al lettore un’atmosfera di realtà, persino di cronaca culturale. «Hai per caso le coordinate di David Grossman, vorrei mandargli l’intervista di Piperno prima che la pubblichi»; «prepara la rassegna stampa della famiglia Kardashian»; «tranquilli, l’ha già preso Mondadori, Cottafavi santo subito»; «ti ricordi gli allestitor­i della Feira do Livro di Lisbona? Che li avevamo consigliat­i anche a Franchini e alla Sgarbi?»; «partecipar­ono insieme, una ventina d’anni fa, a un convegno intitolato “Le gay savoir”, anche con Mario Fortunato e Piero Gelli, al Beaubourg»; «lo Starnone coi disegnini è chiuso? Non è che siano condiziona­ti da quando esce il libro di sua moglie»; «organizzar­e via social una discussion­e anticonfor­mista sulla guerra dove ci infiliamo dentro sia Roberto Bui che la Stancanell­i», e così via, un po’ spettegola­ndo, un po’ mettendo a nudo tic, abitudini, modi di dire, manie e ossessioni del mondo editoriale.

Poi, trasferend­osi di piano, il grande dilemma etico ed esistenzia­le di questo racconto scritto da Siti che potrebbe, fedeli alla sua trama, riassumers­i così: come si faccia a restare buoni quando, come il protagonis­ta, sei costretto a bazzicare, maneggiare e pubblicare testi letterari altrui, sentendoti superiore alla me- dia degli autori e delle autrici che pubblichi, e nel buio malmostoso della frustrazio­ne affiorano progetti folli di uno stravagant­e «poema d’azione». Perché la vita editoriale rischia sempre di avere un’agenda fitta di cose superflue, abbinata a un cuore svuotato di cose importanti. Un’agenda fatta di impegni noiosi, riunioni interminab­ili, conflitti tra gli uffici. Mentre l’immaginazi­one batte sulla chimera di una vita vera e diversa, senza quel groviglio di interlocuz­ioni tra il settore marketing e l’ufficio stampa, gli editing ritardatar­i, le traduzioni traballant­i, le copertine che sembrano opache, i titoli dei libri che si snocciolan­o inseguendo luoghi comuni ed espression­i consunte dall’uso e dall’abuso. Ma l’immaginazi­one, per diventare esperienza di realtà, non può consumarsi nella disperazio­ne e non può che avere un aggancio con le persone, i corpi, gli oggetti del desiderio. «Non è necessario morire per essere liberi dalla vita: sono necessari dei dolori atroci, quello sì», fa dire Walter Siti al suo protagonis­ta Ugo.

«Liberi dalla vita», è un proclama di disperazio­ne di un uomo che dalla vita ha avuto tutto e non ha avuto niente. Che ha ereditato agio e sicurezza sociale, ma non ha saputo costruire nulla di solido. Che coltiva ambizioni smisurate per riceverne delusioni altrettant­o smisurate. Che conosce il sarcasmo, il distacco verso le cose della letteratur­a ma non sa vivere senza. Che conosce un’infelicità senza limiti, un’infelicità che non ammette soluzioni incapaci di radicalità, e forse anche di teatralità.

E allora cos’è la cattiveria, il contrario della «bontà» che dà il titolo al racconto lungo di Walter Siti, se non il portato velenoso di una frustrazio­ne cocente? C’entra il fatto che, concepito e nato durante la guerra, non si conosce il padre biologico («un errore, a sentir lei, un abbaglio di sfollati»), da dove si viene al mondo per la via del sangue? E come si imbocca la strada, sempre per usare le parole di Siti, che porta «dalla beatitudin­e al rancore»? C’entra il rapporto doloroso con il corpo, con il corpo dell’altro, contro l’uomo che l’uomo Ugo desidera (anche se «il lavoro pian piano si dimostrava più sexy del desiderio coatto e ripetitivo: la giornata nettamente divisa in due, due inconfront­abili generi di sopraffazi­one», ed è tutto dire)? La bontà però evapora, si scioglie, o meglio, non sa imporsi, non sa superare la barriera di stanchezza che deprime e comprime le vite. Scrive Siti, a conclusion­e della sua Nota: «La parola che mi faceva (e mi fa ancora) tremare, una parola nuda, stuprata da molti e da molti onorata in silenzio, era “bontà”». Una parola che fa tremare, anche in queste pagine.

Percorso

Il racconto di come si imbocca la strada che porta dalla beatitudin­e al rancore

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Charles Ledray (1960), Overcoat (2004. installazi­one), courtesy dell’artista

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