Metamorfosi della regina
Claire Foy, nuova hacker di «Millennium»: Elisabetta II e Lisbeth si assomigliano, entrambe sanno nascondere le emozioni
ROMA In questo ottobre romano che sembra primavera, Claire Foy al primo incontro della Festa del cinema veste un abito con motivi floreali che non potrebbe essere più inglese, il Paese dov’è nata 34 anni fa. Gentile, riflessiva, un po’ sulle sue e però sfoggia quella semplicità e naturalezza che mostra quando sul set passeggia, sul filo di uno straordinario trasformismo, da un’estremità all’altra. Ora nei panni della regina Elisabetta (The Crown, la serie tv: poi il ruolo è andato a Olivia Colman), ora come hacker ornata di tatuaggi e piercing su naso e orecchie.
Ha ereditato da Noomi Rapace il ruolo di Lisbeth, la soccorritrice di donne che hanno subìto torti e violenze: è il quarto capitolo, in uscita il 31, del cyber-thriller Millennium (la saga scandinava), intitolato Quello che non uccide, dal bestseller di David Lagercrantz (subentrato allo scomparso Stieg Larsson). La regia è di Fede Alvarez, viene dall’horror. Ma per restare nei dintorni di Buckingham Palace, la tazza di tè di Claire Foy, dove insomma si specchia nel temperamento composto, è stata la performance «regale».
È così, Claire?
«A dire il vero, somiglio a tutti i miei personaggi. Per me, avvicinarsi a una donna vera o nata dalla letteratura non fa differenza, perché non sarò mai quella persona; l’immaginazione è più forte di ciò che potrei fare come attrice. Io posso creare solo l’istinto e avere fiducia in me stessa».
Pensare che da ragazza, come tante aspiranti attrici, per guadagnare qualche sterlina
ha fatto la barista. Dal cappuccino allo scettro.
«E la cassiera! Adoravo da piccola mettermi dietro la cassa giocattolo e contare i soldi. La vera regina dello schermo è Helen Mirren. In The Crown è stata la musica a farmi capire l’evoluzione di una persona e di una nazione. Elisabetta II e Lisbeth hanno una cosa in comune: sono brave a mascherare e a nascondere le emozioni».
Lisbeth è un ruolo fisico.
«Per molti è un’icona, io non la vedo come una supereroina: se in una scena mi taglio, sanguino. È Davide e Golia. Lottando con uomini capisce che perderà: ma lei è più rapida, più intelligente, sa cosa è giusto e cosa è sbagliato».
È una combattente.
«Lisbeth è stata più attrici e non appartiene a nessuno. In questo film usa soprattutto il cervello. È più forte di come appare. Il mio apporto è stato quello di appianare la sua violenza perché non potrà mai essere uguale a un uomo; fa il possibile per resistere, non si fida di nessuno, non è simpatica
Violenza
Il mio personaggio usa soprattutto il cervello e sul set ho voluto appianare la sua violenza
né amabile, non smussa il suo carattere, ha un passato traumatico e vuole sopravvivere. Non deve somigliare a me, sono io che devo assumere il suo punto di vista».
Senta, l’enorme drago tatuato sulla sua schiena…
«Volevo allontanarmi dallo stereotipo del drago cinese e avvicinarmi al drago della mitologia scandinava, che è meno noto. C’è venuta l’idea delle fiamme che fuoriescono dalla bocca del drago e lambiscono il collo di Lisbeth».
Lei appare bianca come una bambola di porcellana.
«Sbaglia, richiama una maschera guerriera. Il trucco è essenziale, fa parte del suo business, Lisbeth sa che non può essere riconosciuta».
È un film adrenalinico, musica tuonante che non ti molla, scorribande sulla moto che sembra la cugina dell’aston Martin di 007…
«Era una delle mie tre fantastiche controfigure a correre in moto a 200 all’ora, mica sono Tom Cruise! Al regista ricorda James Bond, ma più folle. Va visto sul grande schermo, non è soltanto un film d’azione, e non ho lavorato così tanto sull’allenamento fisico quanto sulla dizione, sul parlare inglese con accento scandinavo. Non è perfetto, dovevo mantenere il tono degli altri attori. Per fortuna ci sono abituata, l’inghilterra è piena di svedesi».