«Semiramide»: tutte le ragioni di un successo
Avolte il cosa conta decisamente di più del chi e del come. Ed è sicuramente il caso della Semiramide alla Fenice di Venezia, per le seguenti ragioni: che l’ultimo titolo italiano di Rossini (1823) è un capolavoro, un prodigio di opera pensata in grande più di ogni altra, persino del Tell; che è così ampia (oltre 4 ore) e complessa che si esegue poco, quasi mai integralmente; che alla Fenice l’opera fu battezzata; che il manoscritto autografo è stato restaurato e osservarlo nel foyer è emozionante.
La doverosa premessa non significa che il chi e il come non siano degni del coraggio dell’impresa. Non v’è, a dirla tutta, una messinscena dal segno forte. Lo spettacolo di Cecilia Lagorio tende all’astrazione di una scena neutra ma cade nel descrittivo, come quando fa apparire da una cisterna tipo quella del Battista di Salome il defunto marito della sanguinaria regina. Musicalmente parlando, l’operazione è di livello, però. Riccardo Frizza regge l’urto di questo fiume in piena badando per prima cosa alla concretezza. Evita un neoclassicismo di maniera anche a costo di qualche eccesso dinamico. Il ritmo teatrale è spedito, stringente. Non mortifica ma anzi valorizza gli affetti, pur talora caricandoli. Né troppo concede a quegli arbitrii belcantistici che sono più spesso la croce anziché la delizia di questo repertorio. Jessica Pratt, Alex Esposito, Enea Scala e Marta Mari non sono cantanti perfetti, chi per un verso chi per l’altro. Ma formano un’ottima compagnia. Teresa Iervolino una rivelazione. Teatro gremito e applausi scroscianti.